In Francia li chiamano i revenants, sinonimo di zombi: sono i returnees (i foreign fighters di ritorno), le loro mogli e i loro bambini, i “figli della jihad”.

Sono centinaia, forse migliaia: nessuno lo sa e chi è a conoscenza delle vere cifre tace. Molti vengono dalle zone una volta occupate dall’Isis, in Siria e Iraq, dai centri di detenzione (per le donne), dalle carceri di massima sicurezza. Rappresentano i resti sconfitti (per ora) dell’incubo Isis: orfani, vedove di guerra, ex combattenti.

Molti fra loro sono occidentali o europei: oggi rappresentano un vero dilemma per i Paesi di origine. Chi li detiene vorrebbe liberarsene, respingerli in Europa ma dal vecchio continente si fanno orecchie da mercanti. Nessuno li vuole, anche a costo di abbandonarli in Medio Oriente: non sono forse coloro che hanno strappato il passaporto davanti alle telecamere?

In verità tutti temono che si tratti di persone ancora radicalizzate. La polemica infuria: se restano in Siria o Iraq, molti di loro rischiano la pena di morte, vietata in Europa. I difensori dei diritti umani e gli avvocati delle famiglie insistono su questo punto: non possiamo venir meno a nostri principi, alla nostra civiltà del diritto. Ma la paura è talmente forte che l’opinione pubblica europea non parteggia per loro e sarebbe disposta a transigere. Precedente pericoloso.

Molti pensano che si tratti di una scelta critica che concerne persone inaffidabili. Anche i loro figli incutono paura: quanti fra loro sono ancora indottrinati dall’ideologia del terrore? L’unico modo per salvarli dalla pena capitale o da un destino di carcere duro (o campo) a vita, sarebbe chiederne l’estradizione. Tuttavia un silenzio imbarazzato avvolge molte vicende, salvo nel caso in cui le famiglie se ne occupano direttamente, anche se si tratta di rari casi: spesso nemmeno i parenti sono disposti a riaccogliere i “mostri” in casa. Pesa lo stigma Isis: quello di aver fatto parte della peggiore avventura criminale del secolo.

I casi britannici

«Tiratemi fuori di qui, non importa se finisco in prigione» supplica Jihadi Jack, il nickname del ventenne britannico Jack Abraham Letts, nato nel 1995 a Oxford, una volta parte dell’Isis ed ora in mano kurda. Quando era detenuto a Qamishli è stato intervistato dalla BBC e ha mandato un video alla famiglia. I genitori lo rivogliono, hanno interessato i giornali e avviato una campagna, incluso lo sciopero della fame. Ma le autorità prendono tempo: hanno fatto capire che la cosa migliore è che tutti gli ex foreign fighters con passaporto britannico (circa 850, di cui 150 uccisi e 400 rientrati per conto loro) siano giudicati in loco.

La polemica è stata forte su Shamina Begum che aveva lasciato il Paese nel 2015 per Raqqa a soli 15 anni, assieme a due amichette (è rimasta famosa la foto delle tre giovani al controllo passaporti in Turchia). Un giornalista del Times l’ha ritrovata a inizio 2019 a Deir el Zhor. Dice di non essersi pentita e di essere ancora legata al marito (un jihadista olandese catturato a Baghuz) ma vuole comunque tornare: è incinta e afferma di aver già perso due figli, morti di stenti. I media britannici si dividono: “pietà o pugno duro”? Qualcuno con legittima perfidia fa notare che il governo inglese è stato tra i più accesi detrattori di Assad (ancora lo è) e sostenitore dei ribelli: come avrebbero potuto delle ragazzine distinguere tra l’orrore dell’Isis e l’apparente fondatezza della rivolta cosiddetta moderata (mai esistita) che i media rilanciavano? Va detto anche che molti returnees non aspettano il via libera e, tramite filiere nascoste, rientrano in Europa con mezzi propri.

I foreign fighters e i governi europei

In Germania resta controverso il destino di Linda Wenzel, 16 anni alla partenza, arrestata in Iraq. Per ora si è riusciti ad evitarle la pena capitale, senza tuttavia chiederne il rimpatrio. Soltanto in Danimarca è operativo un programma di reintegrazione ufficiale “Abbraccia un jihadista”, ma i numeri sono minimi e il rischio (forse) minore.

I governi europei devono anche tener conto della propria società civile: ci sono genitori di foreign fighters che non si rassegnano e girano la Siria e l’Iraq alla ricerca dei propri cari, in particolare di nipoti che non hanno mai visto.

Anche se rassegnati sul destino dei figli, vogliono portarsi a casa almeno i figli dei figli: «Loro non hanno colpe». A ciò si aggiunge la campagna di stampa sul destino e sulle condizioni di detenzione degli stessi foreign fighters rinchiusi nelle carceri in Siria e Iraq. Sono senza cure, molto vengono lasciati morire e su qualche organo di stampa occidentale si comincia a equiparare la loro sorte a quella dei rifugiati rinchiusi nei centri di detenzione in Libia.

Il caso francese dei 2000 returnees

In Francia (circa 2000 foreign fighters) la polemica è su tutti i giornali. Fino a poco tempo fa Macron aveva permesso il rientro solo dei figli di donne jihadiste o sposate con jihadisti, solo in certi casi, come quello di Mélina Boughedir, 28 anni, catturata a Mosul con i suoi 4 figli piccoli. Vi sono altre situazioni simili come quella di Margaux Dubreil, 27 anni detenuta dai kurdi siriani con 3 bambini. Secondo gli avvocati francesi sarebbero numerosi i foreign fighters francesi o le loro mogli catturati dalle forze anti-Isis, per i quali è in corso una trattativa, senza contare i bambini.

Infatti esiste un aspetto speciale dell’intera vicenda: quello dei minori senza genitori. Per ora Parigi preferisce analizzare le situazioni una alla volta, senza dettare linee di condotta generali.

C’è la ben nota situazione di Emilie Konig, bretone di 33 anni, precursora della jihad e reclutatrice, figlia di un gendarme di Morbilhan, nata nel 1984 e convertita all’islam estremo a 17 anni.

Emilie era divenuta famosa ancor prima del suo viaggio in Siria: aveva scelto per il velo integrale, partecipato a manifestazioni, si era lasciata intervistare alla televisione, sempre con parole di fuoco. Giunta in Siria a fine 2012, era stata addestrata alle armi, fatto raro nel mondo jihadista. Nel 2015 le autorità francesi la iscrivono nella lista dei terroristi. La sua spietata avventura termina ad inizio 2017 quando viene fatta prigioniera nella regione nord orientale siriana. Imprigionata dal YPG assieme ad altre donne di nazionalità francese, non riesce ancora ad ottenere l’estradizione.

Il dramma dei “figli dell’Isis”, vittime della guerra – Euronews

Le madri della jihad e i loro figli

Tali vicende si intrecciano con i processi iniziati in Francia nei confronti delle cosiddette “madri della jihad”, come vengono etichettate le donne che sono andate a trovare i propri figli durante il dominio Isis. Quest’ultimo permetteva alle mamme di recarsi nella zona da loro controllata, nella speranza di coinvolgere l’intera famiglia. Tali viaggi si svolgevano all’insaputa delle autorità europee, decisamente contrarie. Alcune madri oggi dichiarano che stavano tentando di riprendersi i propri figli, o che volevano almeno accompagnarli fino alla loro morte: un tragico programma per famiglie annientate dal jihadismo contemporaneo.

Inizialmente Parigi aveva optato per un programma di rientro dei minori, sempre che le madri avessero accettato di separarsene per sempre. L’idea è di affidare i piccoli ai nonni o zii senza tuttavia procedere a rientri di gruppo. Dopo molte incertezze, Parigi ha deciso nel 2019 di volersi riprendere i propri returnees, soprattutto a causa dell’anarchia nella zona est della Siria causata dall’offensiva turca. Gli stessi militari francesi basati in Siria hanno dovuto ridispiegarsi a seguito della diminuzione delle truppe USA (dopo l’accordo Washington-Ankara). Ma tali annunci non mutano la realtà sul terreno: Parigi cerca di trattare segretamente con tutti, inviando alcuni returnees in Iraq o intavolando negoziati con i kurdi perché se li tengano.

A maggio la commissione nazionale dei diritti dell’uomo chiede al governo di permettere il rimpatrio “almeno dei bambini”, segno che le cose si sono insabbiate. L’imbarazzo delle autorità è al massimo quando la giustizia irachena condanna a morte 11 ex foreign fighters di nazionalità francese a fine maggio 2019. Subito dopo tali sentenze l’11 maggio avviene il rimpatrio di 12 minori, l’operazione più grande svolta fino a quel momento. A settembre iniziano i primi processi, come quello contro Lofti Souli che aveva aderito all’Isis assieme ai due figli. Si tratta di un precursore: è già in Siria nel 2013, prima della grande ondata di foreign fighters del 2014 e seguenti. Porta con sé i due figli, all’epoca di 15 e 18 anni. Divenuto un alto responsabile dell’Isis nel settore comunicazione, pare abbia anche progettato un attentato alla Tour Eiffel.

I due registri delle autorità irachene

Sui foreign fighters le autorità irachene usano due registri: da una parte si impegnano a creare il minimo imbarazzo possibile, dall’altra fanno pressione con le sentenze. Due anni fa hanno condannato una diciassettenne tedesca a 6 anni per appartenenza all’Isis, mentre con la stessa accusa una turca è stata condannata a morte, un’azera e altre 10 donne mediorientali alla detenzione a vita. Si capisce quanto il parere dei governi coinvolti sia influente nelle decisioni dei tribunali di Baghdad. A febbraio 2018 in Iraq si contavano detenute per terrorismo 509 donne straniere, di cui 300 turche, con 813 bambini.

Ma dopo un inizio prudente l’Iraq ha accelerato le sentenze capitali e le esecuzioni, visto anche il disinteresse dell’altra parte. Solo nel maggio del 2018 circa 40 donne (vedove o attiviste) sono state condannate a morte. Per gli uomini è andata peggio: più di 300 condanne alla pena capitale.

Non si sa quanti fra loro avrebbero potuto usufruire di una giustizia differente: il tutto è coperto dal segreto di Stato con cause assai sbrigative. Fin quando è stato al potere ad inizio dicembre 2019, l’ex premier iracheno Adil Abdul Mahdi ha avuto un occhio di riguardo solo per la Francia, dove ha vissuto in esilio per 40 anni e dove vive ancora sua moglie.

Mahdi ha concesso a Parigi di ricevere nelle carceri irachene i returnees francesi imprigionati dai kurdi siriani, evitando così la loro dispersione ed offrendo nel contempo alle autorità francesi un’alternativa ai rimpatri. In cambio ha ottenuto – scrive la stampa francese – armi e promesse di aiuto. D’altronde l’Iraq da tempo reclama a europei ed americani almeno 1,8 miliardi di dollari per gestire il controverso dossier degli ex foreign fighters d’origine occidentale, e delle loro famiglie. Ormai la questione si è trasformata in un business.

La questione della giurisdizione

Ambigua è soprattutto la sorte di chi è in mano ai kurdi siriani. Non esiste solo il tema del controllo dei campi, ora che i turchi hanno respinto il YPG più a sud e che Assad con le sue truppe voglia riprendere il controllo dei territori liberati dai kurdi. Esiste anche la questione su quale sia la reale giurisdizione per gli eventuali processi. All’inizio della battaglia per la fascia di sicurezza, voluta dai turchi qualche mese fa, il YPG minacciava di liberare tutti i detenuti Isis. Ora la situazione è più calma ma il rischio permane e il destino degli stessi kurdi siriani resta in bilico.

In Belgio, su 500 andati a combattere il jihad, finora i casi finiti in tribunale sono circa una trentina. Il più noto è quello di Tariq Jadaoun, già condannato all’impiccagione in Iraq. Anche Jadaoun è stato un propagandista Isis e sta tentando di fornire le prove del suo rinsavimento. Simile sorte tocca al connazionale Bilal Abdul-Aziz al-Marshouhi, nato ad Anversa 26 anni fa e laureato in Ingegneria prima di radicalizzarsi. I foreign fighters tedeschi sarebbero circa 1000, di cui 145 uccisi e 200 già tornati a casa da soli. La Svezia per ora calcola 300 partenze e 150 rientri, ma resta cauta sul fato degli incarcerati. Anche in Italia tale dibattito ha trovato spazio sui giornali.

Il paradosso ceceno

Di altri segno le circostanze paradossali della Cecenia. Non meno di 3000 ceceni hanno combattuto contro Assad, creandosi una fama di guerrieri crudeli. Nondimeno i sopravvissuti e le loro mogli sono rientrati in patria senza problemi. Ramzan Kadyrov, il leader ceceno alleato con il Presidente Putin, è stato anche lui in passato un guerrigliero islamico prima di accordarsi con Mosca. Ora cerca di convincere i returnees di prendere esempio da lui. A Kadirov costoro non fanno paura, anzi ne vuole quanti più possibile e compie ogni sforzo per ritrovarli tra le macerie di quello che fu il “califfato”.

In particolare è sulle tracce di donne e dei bambini rimasti orfani. Potrebbero essere migliaia; alcune stime parlano di 700 donne, per lo più vedove. La sua strategia è duplice: confermare le sue credenziali “islamiche” e rassicurare i russi facendosene carico personalmente. Ma ora Putin si è stancato di questo gioco ed ha chiesto l’interruzione del programma: quando si tratta di terroristi islamici non si è mai troppo prudenti, nemmeno se ciò riguarda i propri alleati interni.

Un universo di assurda violenza

Le rappresentazioni di questa triste vicenda vanno rintracciate nelle parole e nella vita degli stessi protagonisti, dentro i percorsi e i progetti che hanno portato alcuni a scegliere per tale micidiali avventure, altri a subirle. È tutto un universo di assurda violenza che lascia segni indelebili per generazioni. Come nel caso di Jennifer W., nata in una modesta famiglia della Bassa Sassonia e radicalizzata a 21 anni. Oggi Jennifer è tornata e ha subito un processo. La sua storia è particolarmente dura: è accusata di aver lasciato morire una bambina di pochi anni, figlia di una schiava del sesso yezida comprata da suo marito jihadista. Oggi la donna yezida, rimasta in vita, testimonia contro Jennifer per la quale si parla di “crimini contro l’umanità”.

Con una fine opposta la storia di Samantha Sally, americana dell’Indiana convertita all’islam e sposata con Moussa, un jihadista americano anche lui, ma di origine marocchina. Insieme hanno messo su famiglia a Raqqa: due figli avuti in America e due fatti in Siria. Anche Moussa un giorno ha comprato al mercato della capitale dell’Isis una schiava del sesso yezida, Badria.

La vittima trova però in Samantha un’inaspettata alleata che la protegge dal marito, cerca di impedire le violenze, consola, aiuta. Dopo la guerra le due si sono perse di vista. Samantha finisce in cella separata dai figli. Ma una giornalista italiana, Marta Bellingreri, conosciuta la storia, riesce e rimettere le due donne in contatto. Al processo Badria testimonierà in favore di Samantha: «È come mia madre» dice oggi.

Una scintilla di bontà e amicizia nata nell’oscurità dell’orrore.