Javier Chunga

Tra i cinquantasette medici, infermieri e tutte le altre persone che si sono distinte per il servizio reso alla comunità durante l’emergenza sanitaria del Coronavirus, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha indicato solo due stranieri. Sono diventati Cavalieri al merito il rugbista italiano di origini congolese Mata Maxime Esuite Mbandà, che durante il lockdown ha fatto il volontario sulle ambulanze a Parma, e Mahmoud Lufti Ghuniem, libanese, in Italia dal 2012, rider per un servizio di delivery a Torino, che di tasca sua ha comperato 1000 mascherine chirurgiche e le ha regalate alla Croce Rossa.

Non un riconoscimento agli ottacinquemila operatori sanitari di origine straniera, di cui diciannovemila medici, che si sono fatti in quattro nelle corsie degli ospedali, nelle Rsa per anziani o a fornire assistenza a domicilio. Di loro ci si ricorda solo quando muoiono

Come la dottoressa di origine siriane Samar Sinjab, in Italia da una vita, medico di base a Mira vicino a Venezia, finita sui giornali solo per essere stata la centesima vittima del Covid-19 tra i camici bianchi. 
O come Javier Chunga, 59 anni, peruviano, infermiere nel reparto di Terapia Intensiva all’ospedale Valduce di Como, ammalatosi da uno dei suoi pazienti e morto venerdì scorso al San Gerardo di Monza, dopo essere stato intubato per tre mesi senza mai riprendere conoscenza. Javier Chunga è il primo sanitario morto all’ospedale comasco. Ma come lui ce ne sono tanti altri, ricorda Rosa Malgarejo, presidente dell’Associazione Infermieri nel Mondo: «Javier è solo l’ultimo, ne abbiamo persi tanti. Colleghi morti per aiutare tutti, italiani e non».

La morte di Javier Chunga, in Italia dal 2000, un fratello lavora come impiegato in Veneto, proprio perché è stata la prima, ha colpito molto l’ospedale Valduce. Era intubato dal maggio scorso. Commosso il primario Marco Galletti: «Abbiamo lavorato venti anni fianco a fianco». Commossa l’infermiera Giuliana Rusconi: «Una persona molto disponibile, umanamente e professionalmente».

I riconoscimenti mai arrivati per gli infermieri di origine straniera

Particolarmente toccante la testimonianza sui social di una paziente che ha voluto ricordare Javier Chunga che l’aveva assistita durante il ricovero in terapia intensiva: «Nei momenti più difficili mi hai tenuto la mano nelle tue mani. Grazie per avermi accudito, per essere sempre stato presente».
Di ringraziamenti così, per gli «eroi» delle rianimazioni di origine straniere, ce ne sono mille nei vari social. Mancano invece i riconoscimenti ufficiali e istituzionali, a ogni livello. Sono gli stessi operatori del Gruppo infermieri del mondo, in una lettera aperta che abbiamo pubblicato su NRW, a chiedere di non essere più invisibili.

Abbiamo perso tanti dei nostri colleghi stranieri che sono venuti qui in cerca di un futuro migliore, la cosa più triste è che loro hanno perso la vita lontani dai loro figli, dai loro genitori senza potergli dare neppure l’ultimo saluto, in questa battaglia che non ha risparmiato nessuno

Ma la loro battaglia è quella del riconoscimento vero, di chi ora non può lavorare nel settore pubblico se non ha la cittadinanza. Alla fine quello che chiedono è di essere considerati per il camice che portano, non per il passaporto. Scrive Rosa Melgarejo, presidente del Gruppo infermieri del mondo. «Questa lettera ha come obbiettivo quello di sensibilizzare le Istituzioni, ad aprire un canale di riflessione e discussione, per creare le condizioni auspicate da più parti del riconoscimento del diritto fondamentale che ogni infermiere straniero laureato in Italia, o con l’equipollenza del titolo professionale in Italia, che esercita la professione in questo Paese, possa partecipare a pieno titolo ai concorsi pubblici per poter avere quei riconoscimenti così tanto dichiarati in questi mesi durante la Pandemia Covid-19».