«Una “filosofia della migrazione” viene qui delineata per la prima volta. Neppure la filosofia ha riconosciuto sinora al migrante diritto di cittadinanza. Solo di recente lo ha ammesso al proprio interno, ma per tenerlo sotto stretta sorveglianza, pronta a respingerlo con il primo foglio di via».

Così Donatella Di Cesare apre il suo Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, uscito lo scorso autunno per Bollati Boringhieri. Filosofa, studiosa di Shoah e docente di Filosofia teoretica alla Sapienza, a cui recentemente è stata revocata la scorta che l’accompagnava dal 2015 e le era stata assegnata per le minacce ricevute da gruppi di estrema destra.

In questo libro, la filosofa si interroga e interroga il lettore sulla necessità di costruire una filosofia della migrazione che abbia come protagonista il migrante, «attore e l’interprete del dramma epocale».

Una filosofia della migrazione non si assume il compito di produrre soluzioni e stilare criteri per distinguere e ordinare nelle corrette caselline il migrante economico e quello invece meritevole di protezione di internazionale. Di Cesare rifiuta l’approccio funzionalistico e denuncia anzi la tendenza diffusa a riconoscere il migrante soprattutto nella sua capacità di rendersi utile alla società, come forza lavoro e buon contribuente. O anche il maggior valore che viene attribuito ai migranti sulla base della sua volontà di integrazione. Integrazione che date queste premesse si risolve in assimilazione.

Mutuando dalla Torah la figura del gher, lo “straniero residente” del titolo, ciò che interessa all’autrice è far capire al lettore la centralità di chi «testimonia che è possibile un altro abitare, attesta un rapporto altro alla terra, rinvia a un modo altro di essere nel mondo» e in definitiva lo movimenta.

«Letteralmente gher vuol dire colui che abita. Lo straniero, che nel testo biblico indica chi giunge dall’esterno […] in un’accezione, dunque, molto vasta, è allo stesso tempo l’abitante. Il cortocircuito prodotto dalla semantica del gher getta nuova luce sullo straniero e sull’abitare. L’estraneità non può essere né reificata, né assolutizzata; indica, al contrario, una condizione transitoria, passeggera. Lo straniero è sempre di passaggio. Perciò la differenza che lo distingue, che ne segna l’estraneità, non è una differenza identitaria, bensì è molteplice e individuale. Ogni straniero è differente per la sua via singolare. La sua figura […] contribuisce a scavare il vuoto nell’identità, a renderla differente, a tenerla in movimento. Proprio perciò l’estraneità che incarna, e che introduce nella dimora, non è senza effetti per quest’ultima».

Costruendo l’impianto di una filosofia della migrazione, e tenendo conto dell’inevitabilità di avere davanti un lettore spesso sprovvisto di una laurea in filosofia, Di Cesare si impegna a dare le coordinate per muoversi: riferimenti storici (tra i quali una godibilissimo approfondimento su Ellis Island), sociologici, giuridici e filosofici per avviare un discorso complesso ma di cui mai come ora è chiara l’urgenza.

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