Ieri sera il leader della Lega era a Bologna, al Pilastro, uno storico quartiere popolare della città.
È un quartiere costruito negli anni ’60 del Novecento. Nato appositamente per dare risposta alla forte immigrazione di quegli anni. Migranti che venivano dal meridione – all’inizio – e successivamente per quelli che venivano da Paesi extracomunitari.
È un quartiere che mi ha sempre colpito per i palazzi (edilizia popolare emiliana, che vagamente ricorda quella della ex Jugoslavia). Case di prefabbricato, costruite in poco tempo. Quasi in emergenza. I muratori settentrionali erano in qualche Paese mitteleuropeo, a costruire le loro infrastrutture. Perché i palazzi popolari, li avevano già.
Ieri, Matteo Salvini si è reso protagonista di questo episodio del citofono. Su consiglio di una signora del quartiere, suona ad una famiglia di tunisini. Chiede loro se le voci sullo spaccio in quell’appartamento siano vere. Scortato da Polizia e Carabinieri, chiede al citofono se è vero che buona parte dello spaccio nel quartiere proviene da quell’appartamento.
Aldilà dell’ennesima trovata per far parlare di sé, il mio pensiero si è automaticamente proiettato a un episodio di poco tempo fa. Sempre qui in città, stavolta in Bolognina. Quartiere popolare, proprio dietro la stazione.
Due rappresentanti di Fratelli d’Italia hanno ripreso i nomi sui campanelli. Durante una diretta Facebook. Sottolineando (anche stavolta, a detta loro, su segnalazione di “residenti della zona”) che sono tutti nomi stranieri. Gesto sempre giustificato dalla “campagna elettorale”.
Ascoltare i problemi della gente, questo è il mantra con la quale politica e media bombardano le masse. Oramai da qualche anno. L’obiettivo è quello di frammentare la società. Oltre che, naturalmente, aumentare il proprio bacino di elettori.
Mi sono chiesto quale fosse l’appiglio per sottolineare la presenza di stranieri nel welfare popolare. Non starò a riprendere gli slogan degli ultimi tempi. Tutti si possono riassumere in uno solo, che si trova anche nel simbolo della Lega: PRIMA GLI ITALIANI!
Il gesto è molto forte. Per molti è risultato sgradevole. Certamente qualcuno l’ha trovato giusto e coraggioso. Però, come al solito, ha diviso.
È qui il fulcro: dividere. Rendere le persone competitor, più che partner. Soprattutto in vista di queste elezioni, dove gli schieramenti sono agguerriti più che mai.
Anche il sottoscritto ha un nome e cognome “stranieri”. Ma sono italiano. E allora? È qui il punto. Questo è il filo del rasoio: la differenza. Nel nome, nelle usanze, nell’aspetto.
In questo modo si è tagliata, selezionata parte della società. Divisa. In maggioranza e minoranza. Con la promessa che il potere sarà nelle mani in quelli che sono maggioritari.
Nel nostro caso, il gruppo degli “italiani” è quello potente. Quello dei diversi, il minoritario, deve sottostare alle regole dell’altro. Lo si vuole imporre, in un meccanismo di violenza, in nome del fatto che il gruppo dei minoritari sta strappando il controllo al gruppo maggioritario.
Lo si vorrebbe istituzionalizzare, rendere parte integrante del nostro vivere quotidiano. Per uno straniero, in Italia, è già piuttosto difficile. Quindi, un nemico già in svantaggio è apparentemente più facile da sconfiggere.
Quelli che sono bravi e lavorano, d’altra parte, devono essere tutelati. Qui sta il limite presunto di questa retorica. Ma come si fa a sapere se uno è bravo? Non conoscendolo, s’intende.
Di primo acchito, sono anche io nel gruppo minoritario. Non capendo bene perché dovrei starci, per come mi sento. Per il mio vissuto. Però poco importa. Perché ora c’è una lotta fra due modi di pensare, che sono a mio parere piuttosto simili. L’Italia oggi è già una società plurale.
Si vuole però, su modelli di Paesi altri, classificare le persone. L’immigrato musulmano non gode di buona fama. Dovranno forse essere loro gli ultimi?
Foto: Juan Álvarez Ajamil / Unsplash