Luca Barbareschi, attore, regista, produttore televisivo e cinematografico, ex parlamentare di Forza Italia, dal 2015 anima del Teatro Eliseo di Roma.
A guardarle la carta d’identità, nato in Uruguay da famiglia italiana, nonno mezzo marocchino, madre ebrea, il concetto di straniero sembra esserle molto lontano…
Io credo che più si intrecciano i popoli, più il sangue si fa nobile. Non a caso i nobili che tra di loro mischiavano pochissimo il sangue avevano molti problemi. Ho vissuto con la mia famiglia a Beirut, Gedda, Riad, parlo diverse lingue, ho abitato in molti luoghi. Luoghi complessi di cui molte persone non sanno niente anche se poi, in preda a pregiudizi o ipocrisie verso l’altro, parlano molto. Da bambino mio padre mi ha insegnato un detto ebraico che vale per qualsiasi persona al mondo: “Insegna ai tuoi figli la via retta, da adulti la percorreranno”. Noi siamo cittadini del mondo ma dobbiamo sapere come stare al mondo. Se vado in Arabia Saudita non vado in spiaggia nudo. Per me non ci sarebbe niente di male. Ma so che potrei offendere qualcuno che invece merita il mio rispetto.
Da noi invece lo straniero, il migrante nella sua ultima accezione, fa ancora paura a molti…
Sono un liberale totale. È la mia formazione culturale. Se fosse per me farei entrare anche quindici milioni di migranti. Non abbiamo certo problemi di spazio. Sono una risorsa. E noi siamo un Paese che invecchia e non fa più figli. Siamo destinati a scomparire, se ci chiudiamo al mondo, nel giro di cento anni. Il mondo intanto è diventato un’altra cosa. In Cina c’è una città di quattordici milioni di abitanti dove l’età media è di ventisei anni. Sono Paesi dove anche l’economia guarda al futuro. Qui da noi non solo non si fanno più figli. E lo dico io che ne ho fatti sei. Non solo ci facciamo sopraffare da questa onda di populismo e di ipocrisia nei confronti degli altri. Ma non abbiamo nemmeno nessun progetto di economia o di sviluppo aperto al mondo e che guardi alle nuove generazioni.
Ipocrisia e populismo ci hanno fatto diventare un popolo razzista? Gli italiani sono o sono diventati razzisti?
Non siamo un Paese razzista. Anche quando la Lega dice certe cose in campagna elettorale o per allargare il consenso lo fa appunto in un contesto particolare. È tutto il Paese che non può permettersi di essere razzista. Le fabbriche del Nord sono bicolori da anni. Gli operai sono italiani o stranieri, non c’è differenza. Così come l’Emilia che una volta votava a sinistra e adesso si è schierata con il centrodestra non ha cambiato il suo tessuto sociale solo perché gli elettori votano in maniera differente. Nelle fabbriche, nei negozi, nelle aziende agricole, nelle città o nei piccoli paesi italiani e stranieri lavorano fianco a fianco. È un processo irreversibile. L’immigrazione andrebbe organizzata, chi entra nel nostro Paese deve seguirne regole e rispettarne tradizioni, coprire le statue italiane per non offendere l’Islam è sciocco. Obbligare gli immigrati a non delinquere, cercare di inserirli all’interno delle nostre tradizioni e regole è legittimo, ma sfruttare i lavoratori con paghe di 10 euro al giorno è istigazione a delinquere. I problemi di intolleranza si creano quando gli immigrati non sono rispettosi delle regole della società che li accoglie. Ma questo se si guarda bene è un problema che tocca tutti al di là del colore della pelle. Non lo chiamerei razzismo. Ci vuole soltanto un po’ più di buon senso, lavorare pensando ai prossimi cento anni e non trasformare tutto in politichese per notizie che durano il tempo di un tweet.
Insomma porte aperte ma con delle regole…
Una delle cose che più sta pagando la sinistra oggi è quello che viene definito buonismo. Non basta dire che ci vogliamo tutti bene e quindi siamo tutti fratelli. Questa cosa ha creato un meccanismo ingestibile che ha provocato non pochi problemi. E forse non è un caso che questo governo, un governo bifronte alla fine, viene apprezzato perché cerca di occuparsi di una cosa di cui nessuno alla fine vuole occuparsi.
Visto che le migrazioni dal Sud al Nord sono irreversibili e che nel Nord del mondo dove ci troviamo noi c’è più di una resistenza, gli intellettuali, gli uomini di cultura, possono o magari debbono avere un ruolo?
La mia linea personale è quella della responsabilità. Tutte le cose di cui mi occupo devono avere un preciso principio di responsabilità. I contenuti delle nostre opere, la cultura, sono il cibo del cervello. Il nutriente che ci farà pensare e ragionare.