Hafid Bouazza
Paravion
Traduzione di Laura Pignatti
2020 Carbonio Editore
pagine 192 euro 16,50 ebook euro 8,99
Per tutti la terra promessa è Paravion. Il luogo dove scappare, lontano dalla carestia, dalla fatica nei campi, dai pascoli troppo brulli dove anche le capre fanno fatica a vivere. Ma Paravion è soprattutto un abbaglio, la dicitura «posta aerea» di chi da quel luogo ricco di meraviglie scrive a casa lettere ricche di promesse, in buste azzurrine affrancate da quel Paese dal nome immaginario, più che reale per chi ci è arrivato. E allora anche Baba Baluk, seguendo le orme del padre partito oramai da sette anni, si mette in viaggio dalla irreale valle di Aqbar nella Terra africana dei Mori, a bordo di un tappeto volante, per approdare nella città bagnata dal fiume Amstel, fatta di «case storte e inclinate lungo l’acqua». Un tragitto che è quasi la storia dello scrittore Hafid Bouazza, nato nel 1970 a Oujda in Marocco ed emigrato in Olanda con la sua famiglia quando non aveva ancora dieci anni. Il libro, scritto con un linguaggio antico e ricco di immagini, va a toccare nel profondo i sentimenti dei migranti, costretti a lasciare la casa che non è solo un luogo fisico e gli affetti, che sono pure storia e tradizione. Affrontando temi come lo sradicamento e l’alienazione, coniugati con i vincoli sociali e culturali della nuova condizione che, come spesso accade, precludono ogni possibile ritorno. Lasciando i migranti in una terra di nessuno, mai del tutto assimilata, troppo lontana dalle radici originarie. Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autore Hafid Bouazza e di Carbonio Editore pubblichiamo un estratto del libro Paravion.
Dieci anni dopo la partenza del padre, che come lui si chiamava Baba Baluk, il marito di Mamurra decise di raggiungerlo. Dall’arrivo della lettera del padre erano trascorsi sette anni. Era stato l’anno in cui l’asino dei vicini era caduto in un burrone, un anno di carestia in cui il prezzo delle patate era aumentato a dismisura. Poi non avevano saputo più nulla. Una civetta aveva preso a frequentare quasi tutte le notti la loro casa e faceva sentire il suo lugubre verso fuori dalla finestra. Quegli ululati erano un conforto, davano loro l’idea che il padre stesse bene. Mamurra ebbe un aborto, e l’emorragia sembrò non finire mai. Il lenzuolo bianco cosparso di grumi di sangue, dolori insopportabili, ma Cheira e Heira le somministrarono rimedi tranquillanti che le procuravano visioni e sogni sorprendenti.
I due però non si rassegnarono a rimanere senza figli. Incuranti delle calunnie delle vicine – e lì ogni donna era una vicina,
date le dimensioni ridotte del villaggio – presero a praticare il sesso in modo più rigoroso e mirato, ma di volta in volta sempre più disperato. Se Baba Baluk mancava di fantasia e capacità di variazione a letto, compensava tali carenze con una costanza che poteva apparire monotona, e tuttavia testimoniava quella che lui considerava la sua virilità. Cosa vuoi di più? La moglie taceva e pazientava.
Un giorno all’ora della siesta arrivò il postino sudato, coperto di polvere rossa, a bordo del suo ciclomotore Solex scassato, coperto anch’esso di polvere rossa. Un branco selvaggio di nuvole di polvere lo seguiva. Le persone che erano all’aperto interruppero le loro attività, sempre che ne stessero svolgendo, e lo guardarono con soggezione. Le donne che erano indaffarate in casa uscirono di corsa. Il postino si era fermato davanti alla casa di Baba Baluk e Mamurra, era smontato e aveva appoggiato il Solex contro il muro. Le nuvole di polvere si erano posate.
Il postino si tolse il berretto verde slavato, si asciugò la fronte sudata con l’avambraccio e si rivolse verso il sole con gli occhi chiusi e le ciglia frementi. Dopo aver sputato per terra – tutti avevano fatto un passo indietro, spaventati – bussò alla porta arrugginita e consegnò a Baba Baluk una busta dall’aspetto malconcio e polveroso, quasi avesse percorso tutta quella strada a piedi. Gli angoli erano piegati per le tante mani che li avevano stropicciati. Un francobollo blu e bianco con sopra uno strano uccello riportava il nome del paese di provenienza. L’indirizzo era vergato con cura, le lettere, come maglie di una catena, sembravano le piccole piume scure sul petto bianco di un rapace. Baba Baluk ringraziò il postino, che si allontanò lasciandosi dietro fantasmi rossi. Tremante, con riverenza, aprì la busta e ne estrasse alcuni fogli. La carta era sottile e delicata, quasi ruvida, come la pelle d’oca di una ragazzina. Con le lacrime agli occhi guardò il contenuto, baciò l’inchiostro viola con le sue labbra scure color prugna e a ogni foglio che prendeva in mano piangeva di più.
“Stai attento” gli disse Mamurra “finirai per cancellare tutte le parole”.
I vicini si affollavano curiosi intorno alla casa per carpire qualcosa. Sbirciavano sotto la porta, un uomo salì perfino sul tetto, arrampicandosi su per la vite e calpestandola sotto i piedi, ma poi vide un camaleonte e piombò giù spaventato.
Baba Baluk uscì di casa e le persone schizzarono via in tutte le direzioni. Montò in groppa all’asinello e si diresse in città per trovare qualcuno che potesse leggergli la lettera. Gli sembrava di sentire sulle labbra il sapore delle parole di suo padre e a metà strada ad un tratto si fermò di colpo e tornò verso casa, spronando l’asino perché accelerasse il passo lento e pigro. Forse era perché aveva assaggiato l’inchiostro, o perché gli era parso di udire la voce di suo padre nelle parole incomprensibili che vedeva: ad ogni modo si era accorto di conoscere il contenuto della lettera. L’inchiostro gli scorreva nelle vene. Le parole erano scolpite nel suo cuore.
Entrò in casa con tutto l’asino, e senza dare il tempo a sua moglie di riprendersi dallo spavento e sgridarlo – aveva appena lavato il pavimento – chiuse gli occhi e disse con voce autorevole: “Ascolta!”.
Il contenuto della lettera gli sgorgò dalla bocca. Sua moglie scoppiò a piangere dalla gioia.
“Perché non mi hai mai detto che sai leggere?”.
“Perché non so leggere” le rispose lui, ed era la verità. Conosceva anche l’indirizzo sulla busta, così come il nome del paese nel quale suo padre si era stabilito: paravion. Quello era il nome riportato sul grande bollo rettangolare. La scritta bianca sullo sfondo blu: i colori di Paravion.
Quella notte Mamurra si addormentò al suono delle parole paterne che Baba Baluk le ripeteva per l’ennesima volta. La lettera diventò il loro tesoro più prezioso.
La busta sopravvisse per molti anni, poi cominciò a disfarsi in piccoli frammenti che danzavano alla luce del sole. E anche i fogli divennero più ruvidi e cominciarono a presentare grinze e altri segni di vecchiaia, fino a quando l’inchiostro sbiadì e tutto si ridusse gradualmente a una polvere che seguiva allegramente i frammenti della busta nell’aria illuminata dal sole. Il contenuto della lettera, però, rimase sulle labbra e nel cuore di Baba Baluk e anche di Mamurra, che continuava a biascicare le parole tra sé durante i lavori domestici come un’altra donna canterebbe una canzone. In seguito avrebbe davvero cantato quelle parole, aveva una voce meravigliosa. Da bambina, così le avevano raccontato Cheira e Heira, un usignolo si era posato sulla sua bocca. E le sue gote sempre rosate erano due pettirossi felici. L’avevano trovata sotto un albero, una trovatella, figlia della luna.
Baba Baluk non poté fare a meno di partire. La carestia continuava. Il prezzo delle verdure, in particolare dei pomodori e delle patate, aveva raggiunto livelli mai visti e niente, soprattutto la siccità, indicava che avrebbe potuto scendere. A Paravion lo aspettavano tempi fecondi e operosi. E al suo ritorno avrebbe coperto la moglie di abiti eleganti e gioielli. E lei sarebbe rifiorita e avrebbe brillato d’oro come un albero di limoni.
© 2002 Hafid Bouazza
© 2020 Carbonio Editore srl, Milano