Olga Kisseleva è nata a Iževsk nella Repubblica autonoma russa di Udmurta. In Italia dal 2000, cittadina italiana, laurea in Medicina con specializzazione in Chirurgia pediatrica, oltre 1000 interventi nel suo Paese, in Italia può entrare in sala operatoria solo come assistente: «Per ottenere il riconoscimento della laurea ho dovuto superare una prova attitudinale e di lingua italiana di cui non conoscevo una parola prima di venire qui. Ma la specializzazione non viene riconosciuta. Quindi posso entrare in sala operatoria ma non come operatore. È uno spreco infinito di risorse. Su questo punto gli accordi bilaterali con il mio Paese di origine o non ci sono o non funzionano. In altri Paesi europei come la Svizzera o la Germania è tutto molto più facile. Infatti ci sto facendo un pensiero».
È cittadina italiana?
«Sono arrivata in Italia negli anni Novanta, quando in Russia c’era una forte crisi economica e politica. Abitavo in una grande città industriale. Decisi di cambiare vita. Arrivai in Italia con mio figlio che allora aveva 8 anni. Qui mi sono sposata con un italiano, ho preso la cittadinanza e ho trovato un lavoro».
Dove esercita?
«Alla clinica Santa Rita di Cirò Marina in provincia di Crotone. Dal 2004 sono iscritta all’Ordine dei Medici di Cosenza».
Ma non può operare?
È uno spreco enorme di risorse. Ho una laurea, ho operato migliaia di volte, ma in Italia non mi è concesso.
Come se la sua laurea fosse di serie B…
«Il piano di studi in Russia è molto più duro che in Italia. Il corso di laurea dura 6 anni, si accede con numero chiuso, se non dai tutti gli esami previsti dell’anno sei fuori, se non ti laurei nei tempi giusti sei fuori. L’ultimo anno è già di pre-specializzazione, il 10% del corso riguarda la parte chirurgica».
Finito il corso di laurea scegli la specializzazione. Io scelsi Pediatria. Poi si fanno 3 anni di tirocinio in ospedale, non puoi lavorare altrove, non sei retribuito e la selezione è durissima
Una corso di laurea selettivo come se non di più che in Italia…
«Non entrare in sala operatoria all’inizio è stato duro anche psicologicamente».
Lei fa parte di un’associazione che cerca di battersi per superare questi problemi…
«L’Associazione dei Medici Russofoni è presente in 90 Paesi del mondo. In Italia siamo un centinaio. Ci battiamo perché sia riconosciuta la nostra professionalità in Europa, dove esistono gli stessi problemi. Anche se ci sono delle differenze. Alcune ex Repubbliche russe che sono entrate nella Ue, come Estonia e Lettonia, hanno meno problemi. Altrimenti c’è una diseguaglianza di trattamento. Bisognerebbe migliorare gli accordi tra i Paesi. In Russia si chiama diploma, in Italia laurea, ma è la stessa cosa».
In Veneto, vista la carenza di medici che riguarda un po’ tutta Italia, pensavano di utilizzare neolaureati con un tirocinio di due mesi e l’assistenza di un tutor. Sembra quasi che sia più importante il passaporto che la capacità professionale…
«Credo che sia soprattutto un problema politico. In Germania o in Svizzera i medici stranieri vengono impiegati più facilmente. C’è meno burocrazia».
Questa limitazione della sua laurea ha mai pesato da un punto di vista professionale o relazionale?
«La gente, i pazienti, sono molto cordiali. I colleghi sono attenti. L’unica discriminazione è quella del sistema sanitario del Paese. Si dice che mancano medici ma noi ci siamo, che mancano specialisti ma io e tanti come me, con grande esperienza in sala operatoria, è come se non esistessimo. Noi non siamo un problema, siamo la soluzione».
Le è mai venuta la tentazione di lasciare l’Italia, anche per questo handicap professionale?
La mia casa è qui. Mio marito è calabrese. Mi hanno offerto di trasferirmi in Svizzera o in Germania, dove le mie competenze sarebbero pienamente riconosciute e dove potrei entrare ancora in sala operatoria. Non ho ancora deciso, ma non mi chiudo nessuna possibilità.