Nicola Gardini, cinquantatré anni, molisano, è scrittore, poeta, pittore, latinista e traduttore, tra gli altri, di Ovidio, Catullo, Virginia Woolf, Emily Dickinson, Wystan Hugh Auden. Autore di saggi sulla letteratura ha pubblicato numerosi romanzi. Da pochi giorni è uscito per Garzanti il suo ultimo libro di poesie Istruzioni per dipingere.

Nicola Gardini, secondo l’Onu nei prossimi 30 anni 7 milioni e mezzo di africani lasceranno il loro Paese. Molti cercheranno di arrivare in Europa. C’è chi dice “invasione”. Come si risponde a questo sentimento di paura?
Bisogna tornare a credere nella politica e nella diplomazia. Il “sentimento di paura” è proporzionale alla diffidenza delle popolazioni verso le capacità politiche e diplomatiche dei loro governi. La paura è sempre stolta, come insegnavano benissimo già i filosofi antichi. Il triste è che i governi stessi la alimentano, preferendo un esercizio del potere emotivo e demagogico. Far non pensare riesce meglio che il contrario. Le conseguenze già si cominciano a vedere: nessun dibattito sensato, a livello sociale, sull’immigrazione; polarizzazioni schematiche e chiassose intorno a questioni secondarie; sempre più numerose e sempre più gravi manifestazioni di razzismo.

Gli episodi di intolleranza verso gli stranieri, appunto, non si contano più. Siamo diventati un Paese razzista? Lo siamo sempre stato?
Sì, siamo un Paese razzista. Razzismo ce n’è sempre stato in Italia. Oggi ce n’è di più. Se non è aumentato, è certamente più scoperto, più immediato. Si fanno e si dicono cose orribili contro gli stranieri, senza vergogna, senza timore di perdere la faccia. Non c’è più il controllo del decoro, che veniva dal confronto politico e dalla stabilità del compromesso morale. La gente è razzista appunto perché è costretta ad avere paura. La paura ha distrutto il compromesso morale, che aiutava i singoli a distinguere tra sentimento personale e dignità sociale. Magari eri razzista a casa, ma fuori mostravi comprensione e rispetto. Sentivi la società. La società serve, appunto, a censurare gli impulsi distruttivi. Noi stiamo perdendo la società, avendo già distrutto la politica. Il razzismo nasce da un senso di insufficienza e di precarietà. Il razzista, senza saperlo, ce l’ha prima di tutto con il suo Paese, che non cresce e non gli assicura una vita decente.

Lei ha insegnato al liceo e all’università in Italia. Cosa si può fare davanti ai troppi giovanissimi che maneggiano gli insulti razzisti sui social con inquietante leggerezza?
La scuola deve ridare il senso della società. È società lei stessa, perché si è studente tra studenti e davanti all’insegnante. La scuola insegna che imparare è cosa collettiva: scambio e responsabilità. La prima cosa da imparare è che siamo, ognuno, con gli altri e tutto quello che facciamo, diciamo e pensiamo coinvolge la collettività.

Insegna da anni all’Università di Oxford. La Gran Bretagna è più razzista o più accogliente di noi?
La Gran Bretagna è razzista in altre forme. L’altro le interessa solo in termini utilitaristici. Ha tradizionalmente accolto molti stranieri per pura e semplice necessità. Siccome non forma abbastanza professionisti in alcuni campi fondamentali (istruzione, finanza, medicina, ricerca scientifica), li importa. E questo le costa molto meno che se avesse dovuto formarli. Ha così sempre dato l’impressione di una nazione aperta all’altro. Brexit ci ha finalmente aperto gli occhi sulla verità.

L’accoglienza sempre, come dicono pure il Papa e la Chiesa, è praticabile? Basta essere “buoni”?
No, non basta essere buoni. La società non è né buona né cattiva: è intelligente o stupida. La società intelligente fa cose buone e – se tutti ci intendiamo sul senso dell’aggettivo – giuste. Si torna al problema della politica: la gente, il famoso popolo, deve essere società, non somma di individui. La gente pensa solo se diventa società. Una società è cosa politica, ovvero confronto, dibattito, scelta.

Oltre che scrittore lei è un pittore, un artista visivo. L’immagine del piccolo Alan annegato su una spiaggia ha fatto il giro dei media del mondo. È diventata parte dello spettacolo?

«Quella foto, purtroppo, non aggiunge nulla a quello che già sappiamo e alla coscienza del problema politico e morale che ci sovrasta; semmai, rischia di ridurre il problema a icona elegiaca (e non lo dico per togliere importanza al lavoro importantissimo di molti fotografi che sono impegnati a documentare la realtà tragica dell’immigrazione). Non abbiamo bisogno di icone elegiache: abbiamo bisogno di concetti, di idee, di progetti, e di informazione. Dobbiamo impegnarci a ridare la vita all’Alan di quella fotografia, aiutando tutti i bambini e tutti gli esseri umani privati di futuro».

Secondo l’Istat ci sono 1 milione 200 nuovi italiani: sono anche chirurghi, imprenditori, ricercatori, eppure invisibili… Si fa finta di non vederli, un alibi per non occuparsene?
Non mi sono fatto un’idea chiara in proposito. Ma tenderei a sospettare di sì…

I nuovi italiani che vincono nello sport o eccellono nello spettacolo vengono osannati. Siamo rimasti alla Capanna dello zio Tom, lo schiavo che ci piace solo se sta al suo posto e non disturba?
I nuovi italiani che si distinguono per qualche record escono automaticamente dal radar della paura razzista. Stare al proprio posto non disattiva per forza il radar: ci vuole una dimostrazione di super-forza. Il culto della forza – si sa – va con l’amore della paura.

La letteratura, il teatro, il cinema, si sono sempre occupati di migrazioni e migranti. Gli intellettuali, gli scrittori, che ruolo possono avere in questo dibattito?
Gli intellettuali parlano tra loro, purtroppo. I loro spazi tradizionali – giornali e libri – sono frequentati da gente che la pensa come loro. Se provano a dire qualcosa di sensato sui social media, che sono frequentati da folle di violenti, hanno presa pressoché nulla. Non per questo credo che debbano rinunciare a credere nell’importanza del loro lavoro. Il lavoro dell’intellettuale, però, oggi è disperso, nascosto, marginale. La questione è complessa. Gli intellettuali, in ogni caso, sono in crisi, perché non hanno ancora trovato i canali più giusti per intervenire pubblicamente. Il modo più semplice, forse, per uscire dall’isolamento è questo: parlare nelle scuole. Questo è il tempo in cui il teatro ideale degli intellettuali è la scuola elementare.

L’arte non rivoluziona la società. Con le canzoni, è possibile aiutare le persone a maturare consapevolezza e fare piccoli passi verso il cambiamento, ma la rivoluzione sociale avviene attraverso iniziative della politica.

Gato Barbieri, Argentina, musicista