Adesso che è ripartita la pandemia si torna a fare i conti di sempre. Mancano tra il 30 e il 40% degli infermieri e dei medici negli ospedali. Solo nelle terapie intensive già programmate ci vorrebbero novemila operatori in più. Per far fronte all’emergenza si tornano a chiamare in corsia medici oramai pensionati. Oppure si cerca di tappare i buchi con i sanitari dell’esercito o, addirittura, con infermieri e medici appena laureati, mandati in prima linea senza preparazione. Ma in Italia ci sono 77 mila addetti di origine straniera che non vengono utilizzati solo perché non hanno la cittadinanza, requisito fondamentale per lavorare nelle strutture pubbliche. «È uno spreco enorme di risorse, completamente insensato in questi momenti. Tra di noi ci sono capacità professionali elevate, che non sono nemmeno da paragonare a quelle dei neolaureati. Non può essere un passaporto a fare la differenza. Non fateci pensare che stiamo facendo un lavoro sbagliato nel Paese sbagliato», mastica amaro Merhy Valijho, iraniana, responsabile del coordinamento infermieri di Amsi, l’Associazione dei Medici di origine Straniera in Italia.
Quando è arrivata in Italia, Merhy Valijho?
«Sono in Italia dal ‘91. Nell’84 mi sono laureata in Infermeria a Teheran. Ho lavorato come caposala e coordinatrice del reparto di Ginecologia all’ospedale di Teheran. Ho preso una seconda laurea in Ostetricia. Quando sono arrivata qui i primi tre mesi ho fatto il corso di lingue. Per mantenermi facevo assistenza privata, in attesa di avere l’equiparazione dei miei diplomi di laurea».
Adesso dove lavora?
«Sono caposala del reparto di Geriatria all’ospedale Santa Lucia di Roma.
Geriatria…».
Uno dei settori più colpiti dal Covid.
Sì, la situazione è molto complicata. Stiamo otto ore in reparto senza mai togliere la mascherina. I parenti dei nostri pazienti non sono più ammessi in ospedale. Rimangono in contatto con i loro cari solo attraverso le videochiamate
«Alcuni di loro, con deficit cognitivo, non riconoscono nemmeno le voci. Alla riapertura delle visite dopo lo scorso lockdown, una paziente ha avuto un infarto tanto è stata forte l’emozione di rivedere i propri cari».
Siete sottoposti a uno stress incredibile. Senza contare i reparti che sono sotto organico come le terapie intensive…
«Sì, ma non è vero che mancano infermieri e medici. Ci sono, ma quelli stranieri non vengono considerati. Ci sono infermieri che lavorano attraverso le cooperative, che prendono 7 massimo 8 euro l’ora. Ai medici poco di più, 10 euro. Molti preferiscono andare a fare i badanti, come minimo vengono pagati 12 euro l’ora. Io stessa, con oltre 30 anni di esperienza, guadagno 1500 euro al mese. Non siamo minimamente considerati».
Altro che «eroi», come vi avevano dipinto.
Non ho la cittadinanza, ho la carta di soggiorno permanente per poter lavorare. Per questo vengo pagata meno degli italiani?
E come «straniera», non può lavorare nelle strutture pubbliche…
«Appunto. Possiamo solo lavorare negli ospedali privati. Non può essere che un passaporto sia più importante dell’esperienza professionale maturata sul campo. Hanno preferito buttare in corsia neolaureati senza un minimo di esperienza. Non sanno nulla e possono mettere a rischio la salute dei pazienti. Questo non è un lavoro che si improvvisa e per cui basta avere un diploma. Molti di noi hanno grande esperienza, ad ogni livello, maturata nei nostri Paesi di origine o qui magari da anni, nelle strutture private. Non utilizzarci in un momento di grande difficoltà della Sanità pubblica, solo perché non abbiamo il nome italiano o la carta d’identità, è un tragico errore che l’Italia rischia di pagare duramente».