In un momento storico di crescente attenzione verso le tematiche ambientali, c’è una ragazza poco più che trentenne, di origini peruviane, che ha registrato un marchio di commercio etico ed ecosostenibile di grande successo. Maria Veronica Silva Alvarado è in Italia da quattordici anni e ha fondato SAMI. È coordinatrice di progetti di inclusione sociale delle donne migranti e di iniziative per la green school e l’educazione dei giovani alla diversità, come Isola Solidale Aps e di Come l’okapi. Femminista, straniera e imprenditrice, per farsi largo nel mondo del lavoro ha dovuto affrontare pregiudizi e discriminazioni, eppure è convinta che la maggioranza degli italiani non sia affatto razzista.

Lei ha fondato SAMI, un marchio di commercio etico ed ecosostenibile.

«Il mio obiettivo è dimostrare che un business diverso è possibile. Vendo prodotti tipici peruviani provenienti da piccole attività locali. Quando compriamo un avocado a prezzo d’oro, i veri ricavi vanno al rivenditore, non al piccolo agricoltore che davvero si spacca la schiena sotto al sole. È questo processo che voglio invertire. SAMI è già stato inserito in alcuni punti vendita Sigma a Milano, e nel mio ho introdotto anche l’app Too Good To Go per limitare gli sprechi di cibo. Racchiude la mia idea di impatto minimo sul mondo, ma anche di femminismo».

In che senso SAMI è femminista?

«Mi riferisco al dono delle donne è quello di portare avanti la vita e di mantenere un contatto con la natura. Voglio insegnare agli uomini che esiste un modo per vivere in armonia, si può tenere conto anche dell’etica e di quel che c’è dietro al prodotto».

Tra Perù e Italia chi ci guadagna di più da progetti come SAMI?

«Sicuramente l’Italia. Noi cresciamo con una visione eurocentrica per cui si dà per scontato che altrove sia peggio di qui. Eppure, sono tornata da poco dal Perù, tutti i miei amici hanno aperto le loro attività, hanno casa di proprietà e il loro tenore di vita è migliore del nostro. Creare un contatto tra Paesi esteri ed Europa non significa necessariamente “rubare” qui. Peraltro, SAMI è un marchio italiano».

È anche coordinatrice di Come l’okapi, un progetto che mira ad educare i giovani alla diversità. In cosa consiste?

Come l’okapi mira ad insegnare ai ragazzi come la cittadinanza globale sia un valore, ma non attraverso i soliti slogan. Inizialmente avevo un approccio molto accademico, partivo dal preconcetto che questi bambini italiani di seconda generazione potessero beneficiare di una doppia cultura. E invece molto spesso non è così: non ne hanno neanche mezza.

«Hanno preso il peggio di quella italiana, anche a causa di condizioni di vita difficili, e i genitori non sono riusciti a trasmettergli la loro, non potendoli neanche portare a conoscere il Paese di origine. Certi episodi mi hanno portato a cambiare il mio approccio ai progetti».

Ad esempio?

«Una volta una bambina di dieci anni mi ha interrotto mentre raccontavo dei miei studi in Italia e mi ha chiesto “Ma quindi anche io posso fare l’università?”. Non ho capito cosa intendesse, poi mi ha detto “Ho sempre visto gli insegnanti italiani, anche negli uffici sono tutti italiani”. Il fatto che una bambina veda che i lavori qualificanti siano riservati agli italiani mi fa capire la necessità di questi progetti educativi».

Come vede la diversità?

Lasciar passare il messaggio che siamo tutti uguali è un errore. Siamo diversi, e questo è un valore.

In Italia che percezione c’è della diversità?

«Quello che spesso non viene compreso qui in Italia è che noi stranieri non portiamo solo forza lavoro, ma anche un apporto intellettuale. Spesso mi sento dire “Posso parlare con il tuo capo?”, nonostante sia io il capo. Una volta, quand’ero incinta, ero su un autobus e una donna mi ha detto: “Ma voi stranieri venite tutti qui a partorire?”, ho iniziato un comizio perché penso che con queste persone sia necessario dialogare. Però gran parte dell’autobus mi ha sostenuta. Secondo me non è vero che la maggioranza degli italiani è razzista, non è così».

E invece all’estero?

«Quando sono andata nel Kurdistan turco, o perfino in Oman, ho avuto l’impressione che la mia nazionalità suscitasse molto più interesse positivo tra i locali. In fin dei conti le nostre le radici sono le stesse, l’umanità si ritrova a cercare la stessa cosa: il benessere non solo materiale ma anche spirituale».