Colpiscono, come sempre, i dettagli. Quelli condivisi dagli ex compagni di quella fucina di talenti diplomatici che è l’Ispi. Quelli dettati sgomenti alle agenzie stampa dai compagni d’infanzia, dagli amici di quartiere e d’oratorio. Quelli riportati oggi da volontari, missionari e operatori umanitari attivi in questo momento in Congo, stravolti per ciò che è successo.

L’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, 43 anni, è stato ucciso ieri in seguito a un attacco (la cui dinamica deve ancora essere ricostruita con esattezza) diretto al convoglio delle Nazioni Unite su cui viaggiava, avvenuto nel Virunga National Park, in cui hanno perso la vita anche il carabiniere che lo scortava, Vittorio Iacovacci di 30 anni, e il loro autista, Mustapha Milambo. Un’area infestata da centinaia di gruppi guerriglieri locali, ma soprattutto dalla spregiudicata e crudele milizia delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (Fdlr), sospettata numero uno (nonostante le immediate smentite dei suoi leader) perché con gravi precedenti di rapimenti eccellenti nella zona.

L’ambasciatore atipico

Il tragico agguato ha portato alla morte di uno dei diplomatici più giovani al mondo a ricoprire l’alta carica di rappresentanza: nato a Saronno (in provincia di Varese) nel 1977, dopo la laurea alla Bocconi di Milano in Economia aziendale e gli studi all’Istituto di politica internazionale, Luca Attanasio aveva vinto il concorso in diplomazia che presto lo aveva portato a Berna e poi a Casablanca con funzioni di console, per poi rientrare brevemente alla Farnesina, prima del ritorno in Africa, ad Abuja prima e a Kinshasa poi, nel settembre 2017.

Ma sono i dettagli a raccontarci di un uomo appassionato e innamorato del senso di un lavoro che è, profondamente, quello di preservare le relazioni, favorire gli spostamenti, abbattere gli stereotipi. Non c’è retorica, in questo: quella della diplomazia è una carriera che, in certi angoli del mondo, è una vera missione. I livelli di pericolo e l’incertezza di alcuni scenari rendono, però, alcune destinazioni temute più che abbracciate.

Luca Attanasio era un ambasciatore che viveva il Congo come la “sua missione” diplomatica, non come una punizione. Un uomo innamorato dell’Africa, taglia corto chi lo conosceva

Buono, ma non buonista

E la riprova sta, di nuovo, nei dettagli – aspetti marginali rispetto alla macroeconomia del ruolo di rappresentanza, ma che raccontano il perché di tanto sgomento. Come Mama Sofia, l’associazione per l’educazione delle bambine di strada della Repubblica Democratica del Congo creata dall’ambasciatore insieme alla moglie Zakia Seddiki, conosciuta a Casablanca (matrimonio musulmano in Marocco, rito cattolico nella natìa Brianza, a Limbiate), con la quale Luca Attanasio ha avuto tre bambine. I dettagli sono quelli di un ragazzo che ai tempi dell’oratorio aveva fondato gruppi di sostegno per anziani malati e ragazzi disabili, e che da ambasciatore aveva deciso di aderire ad un progetto di adozione a distanza.

Buono, ma non buonista, precisa oggi alla stampa chi l’ha conosciuto: uno che aveva delle idee e sapeva che, per cambiare le cose, era necessario realizzarle

Missionari e imprenditori di passaggio dalle pagine di giornali e tra i post social oggi ci raccontano di un diplomatico atipico, in grado di abbandonare la sua comfort zone e viaggiare in lungo e in largo in un Paese profondamente insicuro, credendo nell’impegno della cooperazione. Uno che ai microfoni di La7, in una delle sue ultime interviste, non temeva di sottolineare, con elegante aplomb ma occhiate cariche di sottinteso, l’origine antica della presenza italiana in Congo, a cavallo delle due guerre, fatta di “migranti economici”, mossi dal sogno di una vita migliore.

Può un sognatore, un visionario essere un uomo in missione? La risposta è forse nelle parole che il giovanissimo diplomatico ha condiviso una manciata di mesi fa, in occasione del premio Nassiriya per la pace:

Essere ambasciatore significa non lasciare indietro nessuno: in qualsiasi parte del mondo, è una missione anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l’esempio

 

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