L’arte non rivoluziona la società. Con le canzoni è possibile aiutare le persone a maturare consapevolezza e fare piccoli passi verso il cambiamento, ma la rivoluzione sociale avviene attraverso iniziative della politica.
Gato Barbieri, argentino, musicista
Francesca d’Aloja, romana, scrittrice, attrice, regista. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, circa 7,5 milioni di migranti subsahariani arriverebbero in Europa entro il 2050. Da dove partono non se ne parla mai se non in modo generico. Lei collabora con UNHCR. In Africa c’è andata anche con Edoardo Albinati con il quale ha scritto il dialogo a due voci Otto giorni in Niger, pubblicato quest’anno da Baldini & Castoldi. Perché questo viaggio? Cosa ha capito?
La ragione del viaggio in Niger nasce proprio dall’esigenza di capire ciò che in Italia viene raccontato in modo generico, appunto. Con Edoardo abbiamo accolto la proposta dell’UNHCR perché ci avrebbe fornito una chiave di lettura preziosa per colmare lacune che noi stessi avevamo prima di partire. Gli occhi capiscono meglio delle orecchie, la testimonianza diretta annulla il sentito dire, di questo sono convinta. Anche quando crediamo di sapere, se non tocchiamo con mano, la nostra conoscenza resta parziale. Ho imparato questa lezione recandomi anni fa ad Auschwitz: pensavo che la moltitudine di libri, film e documentari sulla Shoah mi avessero illuminato a sufficienza ma quello che ho capito, che ho provato, mettendo i piedi e posando gli occhi in quel luogo mostruoso, seppur vuoto e inabitato, è stato incomparabile. Ecco, io sostengo che molte delle cose dette a sproposito sono frutto di ignoranza, sono generate da ciò che si ignora appunto.
Nel libro lei scrive che la condizione dei migranti è quella dell’attesa. Costretti a vivere in un non luogo. Alla fine non è che diventano anche non persone, solo un numero nelle nostre statistiche?
È esattamente questo il rischio, il problema dell’identità è un tema fondamentale nella vita di queste persone, strappate alle loro radici e costrette a vagare per mesi, anni. Non possono contare su nessuna concreta prospettiva per il futuro delle loro vite perché preoccupati di non perderla, la vita, prima ancora di costruirla. La loro esistenza dipende da decisioni altrui, non hanno la possibilità di scegliere, non è forse questo che rende gli uomini liberi, la possibilità di scegliere? La migrazione è anche una condizione dello spirito e lo spirito che vaga senza sosta non troverà mai pace.
Magliette rosse o “tornate a casa vostra”. Il tifo da stadio forse non ci fa capire il problema. Che poi è quello che le ha raccontato una donna del Mali che le ha detto: «Non si possono fare paragoni con ciò che accade dall’altra parte…».
Non c’è frase che mi faccia imbestialire più della famigerata “Tornate a casa vostra”. Quale casa? Davvero questi stolti credono che chi decide di intraprendere una discesa agli inferi abbia un’alternativa? Davvero credono possibile che una donna con un neonato metta a rischio la propria vita a e quella di suo figlio se non per pura disperazione? Davvero pensano che se questi uomini, donne e bambini avessero una casa affronterebbero quello che nessuno di loro, neanche per un giorno, si sognerebbe mai di affrontare? Non si tratta di buonismo (altro termine che mi fa uscire fuori dai gangheri) ma di pura, semplice ed elementare umanità.
Il dibattito sugli stranieri nel nostro Paese riguarda soprattutto gli sbarchi. Ma ci sono 1 milione e 300 mila nuovi italiani, 200 mila solo l’anno scorso. Sono anche loro invisibili?
Le rispondo andando indietro nel tempo e tornando ai miei tempi di scuola. Ho studiato in una scuola francese a Roma. Nelle mie classi, dall’asilo fino alla maturità, ho sempre avuto come compagni ragazzi che provenivano da ogni parte del mondo e di questo sarò sempre grata ai miei genitori. Avermi fatto crescere insieme a persone di ogni colore, in un’epoca in cui le scuole italiane avevano una percentuale di iscritti al 99% nazionale, è stato un premio, un regalo, una fortuna di cui godo tuttora. Mi ha permesso di viaggiare senza sentirmi mai straniera e confesso che uno dei motivi che mi spingeva fuori dai nostri confini era proprio la possibilità di confondermi con persone diverse da me per etnia, lingua o colore. Tornando in Italia sentivo la mancanza di questa varietà. Quando finalmente ho cominciato a vedere gli “stranieri” per le strade della mia città ne sono stata felice e ancor di più lo sono quando sento parlare un asiatico con l’accento meneghino o un africano con quello romanesco. La mia gioia sarà completa quando a Roma potrò salire su un taxi con un conducente pakistano, come a New York! C’è chi considera un’invasione ciò che invece può essere, è, arricchimento.
Lo stereotipo dell’extracomunitario che fa il lavoro che gli italiani non vogliono fare – e quindi non ci rubano niente per altro – non andrebbe sfatato davanti a questi nuovi italiani che si stanno imponendo sempre più in alto nella scala sociale? Imprenditori, chirurghi, ricercatori… Ha qualche esperienza personale oltre una sua idea in merito?
Aggiungerei politici! Sto seguendo con molta attenzione l’ascesa e soprattutto il consenso tributato al sindacalista italo ivoriano Aboubakar Soumahoro. Ahimé, sono ancora troppo pochi quelli che riescono a imporsi. La stragrande maggioranza vive ai margini. Mi viene in mente una raffinata e terribile battuta di Cassius Clay: «È dura essere negro. A me è capitato di esserlo, una volta, quando ero povero». Insisto: la multiculturalità è una risorsa, mi sembra anche un po’ stupido doverlo sottolineare. Sì, è vero, non è più la stessa cosa di quando ero ragazzina e l’opportunità di incrociare un africano per le strade di Roma (Roma!..) era assai improbabile ma è altrettanto vero che in un ufficio pubblico, un ente statale, una banca è molto raro vedere un impiegato straniero (non mi piace il termine extracomunitario) mentre in Francia come in molti altri Paesi è un fatto normale, e finché questa tendenza non cambia di pari passo non cambierà la mentalità di quelli che dicono “Tornate a casa vostra”.
L’Italia ha gioito per la vittoria della staffetta italiana a Saragozza. Tutte nostre connazionali anche se di pelle scura. Gli stranieri ci piacciono solo se ci divertono, ci fanno vincere o si spaccano la schiena per noi?
Purtroppo è così. Ma non per tutti per fortuna, la vittoria delle atlete italiane da molti è stata vissuta con sincero gaudio, nello sport il tricolore ha ancora un valore unificante. Quello che più mi preoccupa è lo sbuffo di insofferenza da parte di insospettabili, persone che non si erano mai espresse con termini razzisti e che d’un tratto hanno potuto liberare la loro parte oscura, quella che una certa parte politica ha solleticato legittimando pensieri e esternazioni fino a poco tempo fa censurate dagli stessi che oggi fanno a gara a spararla più grossa.
La foto del piccolo Aylan morto in spiaggia tre anni fa a Bodrun in Turchia è diventata virale. Da attrice e regista non teme che alla fine tutto diventi spettacolo?
Non è necessario far parte del mondo dello spettacolo per rendersi conto che lo spettacolo è ovunque. Quando il confine fra realtà e irrealtà diventerà così labile al punto di confondersi, e la sovrabbondanza di immagini impedirà la loro distinzione, allora i danni saranno gravi. Non è ancora arrivato quel momento ma ci stiamo avvicinando.
La letteratura si è sempre occupata di migrazioni e migranti. Magari in Italia meno. Gli intellettuali, gli scrittori, che ruolo possono avere di questi tempi?
La sola forza su cui può contare uno scrittore è la sua libertà, perché quando gli è concessa (non è così scontato purtroppo, anche ai giorni nostri) può raggiungere obiettivi che altri, legati a vincoli o a schieramenti, non potranno mai ottenere. Ma proprio in nome di questa libertà, ha il dovere di essere onesto e di raccontare la verità o quantomeno tentare di avvicinarvisi.