Mohammad Idrees Jamali ha 40 anni. E non dorme da giorni. Beve caffè, fuma sigarette e resta attaccato al filo della connessione debole, quasi sempre assente, per parlare con la sua famiglia rimasta in Afghanistan. Per la terza volta era quasi arrivato all’ennesima meta della sua vita precaria di profugo residente in Italia da 13 anni e stava per portare la sua famiglia a Roma, ma il collasso di Kabul occupata dai talebani lo ha allontanato di nuovo dalla speranza di riunire la sua famiglia. Vicepresidente dell’associazione degli afgani in Italia, ci ha chiesto aiuto perché «Non ci sono solo i collaboratori della coalizione internazionale da salvare. Tantissimi esuli che stavano aspettando come me di ricongiungersi con le loro famiglie, dopo un’estenuante attesa burocratica per avere i visti, ora non sanno come proteggere le proprie famiglie dalla furia talebana», spiega a NRW. Mohammad Idrees Jamali appartiene alla generazione di profughi scappati dai villaggi pashtun al confine con il Pakistan dopo il 2001 per non diventare soldati della jihad talebana. E non vuole che anche i suoi 5 figli crescano come lui in mezzo a una guerra. Da tre anni tenta, invano, di portare tutta la famiglia in Italia. «Il nulla osta per richiedere il visto è scaduto più volte, ma ora ce l’avevamo quasi fatta. Voglio che mia figlia Hafaza, la mia principessa che ha solo 9 anni, possa diventare un medico in Italia e ora non so più come fare per farla venire in Italia con mia moglie e gli altri 4 figli e ora non so più neanche come mi chiamo», racconta con un timbro di voce segnato dalle fughe, le attese, l’incubo talebano.
In questi giorni nella comunità afgana in Italia sta suonando un tam tam angoscioso per tutti quelli come lui che sono riusciti a trovare rifugio in italia e sono rimasti separati, scollegati dalle famiglie, rimaste intrappolate nei villaggi e nelle città occupate dai talebani
«Ho parlato con mio fratello, ma non parlo con la mia famiglia da due mesi, la linea cade sempre e non so più cosa fare per salvarli», spiega al telefono dallo studio dell’avvocatessa Fabrizia Fabiani che lo assiste.
Una vita in fuga dai talebani
Il suo racconto è lungo e complesso. La trama della sua vita è piena di buchi neri, di un tempo indefinito passato in un campo profughi da adolescente in Pakistan e poi ostaggio dei talebani, di milizie e gruppi criminali, infine di trafficanti di esseri umani prima di raggiungere la Turchia e poi la Grecia. Mezza esistenza passata a fuggire è difficile da spiegare, da dimostrare, da mettere sulla carta in modo coerente. Ci ha messo tre anni e mezzo a convincere la commissione che esamina le richieste di asilo a dargli una protezione internazionale, dopo aver fatto diversi ricorsi. Quando è arrivato in Italia nel 2008 dalla Grecia, ancora non esisteva la rotta balcanica. In Afghanistan Jamali faceva l’infermiere, vaccinava adulti e bambini nei villaggi nella provincia di Nangarhar.
Andavamo con il camper per vaccinare i bambini che vivono lontano dalle città ma non potevo più rimanere lì, non potevo più lavorare né aiutare il mio popolo, sono stato costretto dai talebani a lasciare la mia terra. La mia fuga dall’Afghanistan, passando da Turchia e Grecia a piedi, è durata “solo” sette mesi ma al confine tra Iran e Turchia sono stato ostaggio per due mesi, insieme ad altri profughi afghani, di un gruppo che voleva un riscatto e ci teneva in montagna in un rifugio per animali
L’appello di Mohammad Idrees Jamali per rivedere la famiglia
A Roma Mohammad Idrees Jamali lavora come mediatore culturale e operatore sociale per il Comune di Roma e collabora con diverse associazioni come Binario 15 (dal nome del binario della stazione Ostiense di Roma diventato crocevia e rifugio per migliaia di profughi in fuga dall’Afghanistan) che si occupano di accoglienza dei migranti e dei senza fissa dimora. Anche lui è stato senza fissa dimora, ha dormito per strada, nelle stazioni finché è riuscito ad avere il permesso di soggiorno. E ora che il suo Paese è collassato ripercorre le tappe della sua vita con amarezza, stordito dalla paura di non rivedere più la sua famiglia. Sogna un futuro diverso per i figli che vorrebbe vedere diventare avvocati, architetti o medici. E lancia un appello perché in questi anni è riuscito a tornare a casa poche volte, l’ultima l’anno scorso, dopo la fine della prima ondata della pandemia.
Mio figlio maggiore è nato nel 2001, nell’anno che ha cambiato le nostre vite. E ora, vent’anni dopo, siamo di nuovo al punto di partenza. Amo il mio Paese ma il mio Paese è finito. E la mia famiglia deve avere la possibilità di salvarsi
Il suo caso non è l’unico. Sono tanti i profughi che hanno trovato un rifugio, un lavoro nel nostro Paese e attendevano il ricongiungimento con le proprie famiglie. Tutti rifugiati o diventati cittadini italiani, ora si sentono abbandonati. Sperduti, insonni, storditi, impotenti, passano le loro giornate a lanciare appelli e cercare una connessione per contattare famiglie che si sono chiuse in casa, terrorizzate, o si sono nascoste per timore di ritorsioni da parte dei talebani perché parenti di dissidenti scappati all’estero. E come Mohammad Idrees Jamali sperano nella sospensione dei visti richiesta anche da Asgi, l’autorevole associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, all’Italia e all’Europa per garantire evacuazione, ingresso in Europa e protezione per le persone in fuga anche di chi è in attesa di partire per il ricongiungimento familiare. «Fate venire la mia famiglia, vi prego. Non dimenticate le nostre famiglie su cui si abbatterà la furia talebana», ripete Mohammad Idrees Jamali che era arrivato quasi in cima alla vetta dopo tante fughe e ora ha dovuto ancora una volta fermarsi ad aspettare.