Raffaele Masto
La variabile africana
Riserve naturali ed equilibrio geopolitico del pianeta
(Egea, 2019)

C’è un continente che da solo produce il 50% del cobalto mondiale, il 90% del platino, il 50% dell’oro, il 98% del cromo, il 70% della tantalite, il 64% del magnesio e il 33% dell’uranio. Un continente non solo ricco ma pure all’avanguardia nel produrre materie prime per le più sofisticate tecnologie. La Repubblica Democratica del Congo da sola detiene il 70% del coltan estratto in tutto il mondo, usato nella costruzione dell’hardware dei telefoni cellulari. Eppure l’Africa continua ad essere il continente più povero al mondo. In Burundi la popolazione non raggiunge il reddito di un dollaro americano al giorno. Se il sottosuolo è saccheggiato dalle multinazionali, la terra è terra di conquista, anzi di land grabbing come la definisce Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare e scrittore, grande conoscitore dell’Africa che ha visitato in numerosi viaggi. Da queste esperienze nasce il suo libro La variabile africana, pubblicata dall’editore Egea, che è molto di più di un semplice reportage di viaggio. Ma un’analisi accurata del saccheggio delle risorse di un intero continente, costretto a esportare merci, che sia tantalite o legname, senza alcun processo di lavorazione nè lavorazione industriale. In un gorgo economico che inghiotte un intero continente con i suoi abitanti costretti a lasciare le campagne per la città, il Paese per altri Paesi. In un processo estraniante senza fine dove agli abitanti della Costa d’Avorio, il primo produttore al mondo di cacao, è quasi sconosciuto il cioccolato. Fabio Poletti   

Per gentile concessione dell’autore Raffaele Masto e dell’editore Egea pubblichiamo un estratto del libro La variabile africana.

Copertina

Oggi in Africa sono decine le città ingannevoli come Maputo, e sono sempre più appariscenti perché nei primi anni del terzo millennio la popolazione urbana del continente ha superato quella rurale. Ciò significa che oltre 500 milioni di persone vivono nelle città, una cifra enorme. E il divario tra popolazione rurale e popolazione urbana è destinato ad aumentare. La crescita demografica africana, infatti, è dirompente: nel 2050 il miliardo di africani che vivono nel territorio a sud del deserto del Sahara saranno il doppio di quelli attuali. Una città come Lagos, capitale economica della Nigeria, avrà circa 50 milioni di abitanti, sarà un’immensa area urbana totalmente ingovernabile e ingestibile, un mostro che vivrà di vita propria – come in parte è già oggi –, senza una rete elettrica capace di arrivare in tutti i quartieri, senza fogne, senza strade e senza un sistema di trasporti.
Questo fenomeno non è solo una questione logistica o sociale, è un serio problema economico. L’Africa, nonostante la crescita demografica, è il continente meno abitato (rispetto all’estensione del suo territorio) e il meno coltivato, essendovi poco praticata l’agricoltura intensiva. La crescita dimensionale delle città crea una forte domanda di prodotti agricoli indispensabili per nutrire la popolazione urbana, domanda che l’agricoltura africana non può soddisfare. Un’agricoltura produttiva consentirebbe a molti Paesi di conseguire l’obiettivo minimo della autosufficienza alimentare, senza contare che lo sviluppo economico si innesca solo se è sostenuto da un sistema agricolo efficiente.
In questo quadro, invece, negli ultimi anni è cresciuto un fenomeno che utilizza il territorio africano per i fabbisogni di Paesi terzi. Si chiama land grabbing, letteralmente «accaparramento di terra», e interessa vaste aree del continente. Consiste nell’acquisizione del diritto di sfruttamento delle terre da parte di Paesi o imprese private straniere e viene praticato soprattutto da alcuni Stati arabi, in prevalenza monarchie del Golfo, e dalle economie emergenti dell’Asia – ovviamente la Cina ma anche India, Malesia, Corea, Indonesia – e non mancano i Paesi europei e occidentali, in particolare le vecchie potenze coloniali, ma non solo. I territori africani più ambiti sono, ovviamente, quelli più fertili o quelli specifici per alcuni prodotti. Così l’Arabia Saudita, per esempio, ha «comprato» una vasta fetta dell’altopiano etiopico nella regione di Gambella, la Corea del Sud ha acquisito un’importante porzione dell’interno del Madagascar, la Cina possiede vasti appezzamenti di terra in diversi Paesi dell’Africa centrale e australe, gli Stati Uniti utilizzano varie migliaia di ettari fra Liberia e Sierra Leone. Lo Stato più attivo in queste pratiche è la Gran Bretagna, mentre Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Cina coprono insieme l’8 per cento dell’intero fenomeno. Il 70 per cento delle terre oggetto di land grabbing si trova in Africa; si tratta di quasi 30 milioni di ettari. Le forme di acquisizione dei terreni sono le più svariate: si va dalla locazione di lunga durata – dai 30 ai 99 anni – al vero e proprio acquisto o a concessioni di sfruttamento, come avviene per i siti minerari. Il Paese che ha ceduto più terre in assoluto è la Repubblica Democratica del Congo, che vede una presenza straniera su oltre sei milioni di ettari.
Sulla carta, dunque, si tratterebbe di un semplice investimento; di fatto si tratta di ben altro, perché la terra è l’elemento costitutivo di una nazione, su di essa vengono tracciati i confini e da essa deriva la ricchezza di un Paese. L’uso e la lavorazione di appezzamenti da parte di imprese e Paesi stranieri non sarebbero un elemento negativo se gli investimenti fossero finalizzati alla coltivazione di prodotti agricoli per il mercato interno; ma non è così, e proprio qui sta il punto. Ciò che gli investitori producono sono per il 43 per cento colture alimentari, per il 36 per cento colture commerciali e per il restante 21 per cento biocarburanti. In ogni caso non si tratta di prodotti destinati al consumo interno, ma all’esportazione. Di fatto il Paese viene impoverito, col risultato che una porzione sempre maggiore di popolazione si riversa nelle città, che si gonfiano a dismisura di abitanti che non hanno un lavoro ma che devono procurarsi ogni giorno di che vivere, magari con attività illecite o con piccoli furti, alimentando così la delinquenza e l’insicurezza.
Il fenomeno del land grabbing, dunque, è totalmente finalizzato all’estero e penalizza la popolazione locale. È un po’ come un ritorno al colonialismo, ovviamente su scala e con modalità diverse. Il colonialismo in effetti metteva il territorio a disposizione della madre patria, e anche in questo caso la terra è praticamente sottratta all’uso della popolazione locale e impiegata per coltivare prodotti che servono a chi ne è proprietario. Ai tempi del colonialismo si capì, per esempio, che il Senegal offriva ottime condizioni per la coltivazione di arachidi e si mise l’intero Paese a questa coltura. Ma con che cosa potevano nutrirsi i senegalesi? La madre patria, che aveva colonie anche nell’Estremo Oriente, poteva importare riso che cresceva bene da quelle parti. Allo stesso modo in Sudan, a sud di Khartoum, nel punto dove si congiungono il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco, si constatò che c’erano terre adatte a far crescere bene il cotone, così quell’intero enorme triangolo fertilissimo venne coltivato tutto a cotone. Poi il colonialismo finì e i Paesi africani si trovarono con monocolture inutili e mostruose, che hanno costituito una delle principali zavorre per lo sviluppo. Il land grabbing è qualcosa di simile, una relazione che lascerà l’Africa più povera e con un rapporto tra aree rurali e aree urbane fortemente squilibrato.
Una situazione di questo tipo in Africa si è verificata anche per quanto riguarda lo sfruttamento delle foreste nelle aree tropicali ed equatoriali, ricche di qualità di legno pregiate che sono andate a rifornire direttamente i mercati europei e occidentali senza dare alcun impulso all’economia locale: tronchi esportati appena tagliati, lasciando spoglie e inutili vaste aree che prima erano un serbatoio di prodotti che favorivano la nascita di attività locali. Come per le terre coltivabili oggetto di land grabbing, anche lo sfruttamento del legno delle foreste africane andrebbe finalizzato all’economia locale, ma questo non avviene. Il taglio industriale si traduce in un danno netto per il Paese, che si potrebbe perlomeno limitare se le concessioni che lo Stato assegna agli investitori stranieri fossero gravate da imposte molto consistenti nel caso il legname venga esportato subito dopo il taglio e radicalmente ridotte nel caso in cui, invece, le prime lavorazioni siano effettuate sul posto. La questione è cruciale: costruire imprese per la lavorazione del legno significa formare dei lavoratori, assumerli, dare loro uno stipendio, creare un potere d’acquisto e una domanda interna, in una parola rilanciare l’economia e distribuire la ricchezza. Ciò vale per qualunque risorsa prodotta dall’agricoltura: cotone, canna da zucchero, frutta tropicale, caffè, cacao e, naturalmente, anche per legname, metalli e minerali. In una parola, sarebbe necessario che i Paesi africani diventassero esportatori di manufatti e non solo di materie prime grezze.

Una classe politica inadeguata

Oggi, drammaticamente, molte realtà del continente esportano prodotti lavorati in quantità di poco superiore a quanto esportavano subito dopo l’indipendenza, cioè quasi sessant’anni fa. Chi o che cosa è responsabile di questo sostanziale fallimento? Diversi i fattori, ma uno è senza dubbio il fatto che le classi politiche di buona parte degli Stati africani sono corrotte, incapaci, inadeguate, spesso al governo ininterrottamente da decenni e con l’obiettivo primario di continuare a occupare, senza rivali, le stanze del potere. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Si pensi al Gabon, governato per ben quarantadue anni da Omar Bongo; morto lui (nel 2009), al suo posto c’è oggi il figlio, Ali Bongo (sebbene colpito da una grave malattia alla fine del 2018). In Togo il presidente è stato per trentotto anni Gnassingbé Eyadéma e alla sua scomparsa è salito al potere il figlio Faure. In Angola e in Mozambico la classe politica al potere è sempre la stessa dall’indipendenza, ed è diventata una sorta di oligarchia inamovibile. In Burundi e in Ruanda ci sono presidenti relativamente giovani, che però hanno ampiamente superato i due mandati che la Costituzione concede loro e non accennano a voler lasciare il posto di comando. In Uganda, nella Repubblica del Congo, in Sudan ci sono presidenti della vecchia guardia alla guida dei rispettivi Paesi da quasi un trentennio. Sono questi i personaggi che concedono i permessi di utilizzo delle terre agricole e delle foreste o di prospezione, alla ricerca di siti minerari per l’estrazione di materie prime e per la loro commercializzazione. I beneficiari delle concessioni sono lobby economiche, multinazionali o Stati esteri, quasi sempre potenze europee o occidentali oppure asiatiche o arabe, che finiranno per diventare protettori o sostenitori di quei presidenti e delle classi politiche dalle quali hanno ricevuto contratti e permessi.
Un caso eclatante di queste relazioni interessate è quello della Costa d’Avorio e del suo ex presidente e padre della patria Félix Houphouët-Boigny. Il Paese poteva vantare una delle più importanti foreste primarie dell’Africa occidentale e oggi è diventato il maggior produttore mondiale di cacao, ma la sua popolazione non conosce quasi il cioccolato.