La storia è nota. L’avete già letta ovunque. Ma la vicenda della calciatrice della Juventus Eniola Aluko, britannica di origine nigeriana, che ha deciso di lasciare l’Italia perché la fa sentire «diversa» per il colore della sua pelle, induce a qualche riflessione controcorrente. In un articolo sul Guardian scrive:

A Torino vengo trattata come una ladra. Mai ricevuto un insulto dal campionato o dai tifosi, ma mi sono stancata: la città è indietro di decenni.


Tutto vero. A Londra il sindaco è un musulmano di origine pakistana. A Torino ancora pochi mesi fa sono apparsi cartelli dove era scritto che non si affittava a stranieri. Il razzismo, una brutta bestia della società europea contemporanea, non si combatte però da solo. Ognuno ha le sue sensibilità ma la denuncia di Eniola Aluko non può essere considerata un modello positivo. Alla fine si tratta di una resa, di chi può decidere per i suoi meriti calcistici di giocare altrove con facilità. Chiudere il capitolo italiano e lasciare i razzisti a casa loro è più facile che calciare un pallone contro i tifosi, come ha fatto Mario Balotelli qualche settimana fa.

Nessuno nasce eroe, si capisce. Ma la lotta contro il razzismo l’hanno fatta, anche simbolicamente, coloro che non si sono arresi. Se Rosa Parks nel 1955 non si fosse seduta in un posto riservato ai bianchi su un autobus a Montgomery, la storia sarebbe stata probabilmente diversa. Rosa Parks era solo una sarta impiegata in un grande magazzino, con quel gesto, che le aprirà il carcere per comportamento improprio, sapeva di aver tutto da perdere.

I presidenti dei 20 club di serie A hanno firmato un documento in cui si impegnano a fare di più contro il razzismo. La premessa al documento è forse la cosa più importante:

Dobbiamo riconoscere che abbiamo un serio problema con il razzismo negli stadi italiani e che non l’abbiamo combattuto a sufficienza nel corso di questi anni.

Vedremo a cosa porterà realmente questa presa di posizione, ma il calcio ha deciso di non arrendersi più ai razzisti.