Dimenticate le reazioni indignate dovute alle discriminazioni. Quelle c’erano quando il mondo non era in quarantena, si muoveva e l’inclinazione umana alla prevaricazione aveva trovato come capro espiatorio o bersaglio preferito lo straniero.
Ora che il mondo è sospeso, le domande che si pongono gli immigrati sono le stesse che si pongono tutti. O meglio, una sola. E ora cosa faccio?
Questo almeno è quanto emerge dopo un primo monitoraggio fatto dalla psicologa italo-argentina Natalia Demagistre che ha aperto una sorta di corridoio umanitario virtuale per fornire supporto agli stranieri in Italia attraverso lo sportello digitale gratuito dell’Amsi, l’Associazione dei Medici Stranieri in Italia. Sono soprattutto donne e di prima generazione che chiamano per avere sostegno o informazioni sul Covid-19. Dall’altra parte dello schermo, per così dire, anche se la comunicazione avviene soprattutto su WhatsApp, c’è Natalia Inés Cleo Demagistre, 44 anni, coordinatrice della commissione degli psicologi di Amsi. Arrivata a Roma dieci anni fa per amore, dopo aver conosciuto suo marito, direttore di una struttura sanitaria privata, durante una vacanza in Italia. Cittadina italiana, ha ottenuto il riconoscimento del titolo di studio e si è iscritta all’albo degli psicologi del Lazio.
Prima del virus che ha obbligato tutti a riprogrammare il proprio lavoro, per chi lo ha mantenuto, si occupava fra le altre cose dei disturbi di comportamento fra bambini ed adolescenti. E di un’altra quarantena ma volontaria, dovuta alla dipendenza dai social che ha portato qualcuno dei suoi giovani pazienti a stare chiuso in una stanza per due anni.
Traumi migranti
Si è occupata anche di migranti. Sia di argentini emigrati in tutto il mondo con il loro bagaglio di solitudine, sia di fuggitivi che arrivavano dalla Libia con dei macigni sul cuore e le ferite su corpi martoriati. In un centro di accoglienza, la dottoressa Demagistre cercava di aiutarli a far ripartire le loro vite dopo il trauma del viaggio. Nel mondo della quarantena, dove invece si combatte o si aspetta con il fiato sospeso che passi la pandemia, lei ha aperto un filo diretto per ascoltare i bisogni degli stranieri terrorizzati dal Coronavirus. «Per ora mi scrivono su WhastApp, chiedono se il servizio è gratuito e poi li chiamo, anche se dovrei dire “le” perché per ora sono soprattutto le donne a contattarmi», racconta Natalia Demagistre a NWR.
Sono sotto shock, bombardate dai bollettini di guerra su contagiati e morti, hanno bisogno di qualcuno che le aiuti a rileggere la nuova realtà. Io per ora ascolto perché hanno più che altro bisogno di parlare. Sono stordite, smarrite, perse nelle proprie dimore che improvvisamente non riconoscono più.
Informazioni e confessioni
«Raccontano di avere attacchi d’ansia o di panico. Ma quello che manca più alle persone che mi cercano non è tanto la libertà, quanto la propria routine. Abitudini, come andare al bar a bere un caffè o recarsi al lavoro. E poi ovviamente la rinuncia all’altro, al proprio prossimo, alla fisicità. La vita sospesa crea un profondo trauma con cui dovremo fare i conti dopo, quando usciremo dalla quarantena. Ora è la rinuncia, la cosa più inaccettabile. E in questo non c’è differenza fra stranieri e italiani. Chi è resiliente e sa adattarsi, ne uscirà diverso, ma rafforzato». Lo sportello, attivato anche per fare una campagna di prevenzione e dare le informazioni giuste per evitare il contagio, per il momento serve come un confessionale. Una sorta di telefono amico per chi è straniero e già ha dovuto fare un percorso in salita per adattarsi al Paese che lo ha accolto. E nella quarantena si sente doppiamente straniero perché ha la famiglia nel Paese di origine.
Quelli che mi contattano, appartengono alla prima generazione di immigrati e la loro principale difficoltà è quella di dover continuamente rassicurare le loro famiglie che chiamano in continuazione per sapere cosa sta succedendo. E loro non sanno cosa dire perché chi è che sa cosa sta realmente succedendo?
Anche qualche uomo l’ha chiamata per sfogarsi rispetto ai problemi di lavoro o perché a fare lo smart working proprio non ci riesce. Molti, chiusi in casa con le loro famiglie, vengono subissati di richieste: lavori domestici da parte delle mogli, desiderio di attenzione da parte dei figli. E anche loro non si trovano più dietro le mura di casa ad attendere che passi la grande paura.
Disagio senza discriminazioni
Natalia Demagistre, come molti argentini di Buenos Aires ha origini italiane sparse un po’ ovunque fra la Toscana e il Nord. Si è adattata bene in Italia, dove ha fatto fatica solo a emergere nel lavoro. Un figlio di otto anni, spiega: «A casa siamo riusciti a reinventare gli spazi, nuovi modi di giocare, studiare, lavorare e vivere, ma chi mi chiama non mi parla, come accadeva prima dell’emergenza, delle proprie frustrazioni sul lavoro perché magari facevano lavori umili, non adeguati agli studi fatti qui o nei Paesi di origine. O delle fatiche dell’inserimento. E nessuno lamenta discriminazioni, la domanda che fanno è la seguente: “E adesso cosa faccio?” Oltre all’incertezza, al non sapere per quanto tempo durerà, si sentono impotenti». E in attesa del momento in cui tutti potranno riscoprire cosa voglia dire abbracciarsi, lei ascolta, incoraggia le persone a verbalizzare il disagio e la sofferenza.
Perché chi non è colpito direttamente si sente oltre che sospeso, imprigionato. E non perché è costretto a stare casa, ma perché non si sente più a casa sua nel Paese che aveva sognato, a cui aveva ambito e dove aveva lottato strenuamente per essere riconosciuto.
E dopo, cosa accadrà alla fine della quarantena? «Dopo si smetterà di ascoltare e si dovrà intervenire per aiutare i depressi e tutti quelli colpiti dalle psicosi», spiega la psicologa a NRW. Cambieremo, certo, ma come cambieremo? La risposta della dottoressa Demagistre è lapidaria. «Adesso siamo tutti diversi, ma sulla stessa barca. Poi gli stranieri torneranno a essere diversi e basta, ma spero di sbagliarmi».