Urmila Chakraborty ha origini indiane e vive da 25 anni a Milano, una città che chiama “casa”. È corporate trainer per manager di grandi aziende, ma nella sua vita la didattica ha sempre ricoperto un ruolo decisivo. Ha fondato la scuola di lingue e mediazione culturale Englishour ed è insegnante alla Statale di Milano, nella facoltà di Mediazione linguistica e culturale. Ha pubblicato numerosi libri che con grande delicatezza parlano di interculturalità e anche di pregiudizi, come Milano 4ever e Asinelli persone per bene. Chakraborty mantiene un legame forte con la sua India, dove torna di frequente anche per lavoro, ma ha una visione disincantata del suo background culturale, oltre che del suo rapporto con l’Italia: «Non si è indiani o italiani solo per il passaporto, e forse non è neanche così importante identificarsi come tali. Là dove piangi c’è il tuo cuore, vuol dire che lì ti senti a casa».
Nell’anno della pandemia il mondo del lavoro ha scoperto le potenzialità del web, lei come ha vissuto questo cambiamento?
«Io sono stata una delle prime a usare il digital come strumento lavorativo, per me è stata una transizione naturale. Nel 2014 ho partecipato a un grande evento di training per i manager di una nota azienda automobilistica. Si doveva svolgere in Italia, in India e negli Stati Uniti, a Philadelphia. Ma quando siamo arrivati alla tappa americana, ci siamo resi conto che sarebbe stato molto meno dispendioso tentare un approccio online, così abbiamo sperimentato un sistema che negli anni a seguire è rimasto una costante del mio lavoro. Al tempo eravamo in pochi a utilizzarlo, si chiamava distance teaching e si svolgeva principalmente su Skype».
È con la pandemia che abbiamo scoperto di essere all’avanguardia in quell’ambito, avevamo sempre contato molto sul mezzo online, ma non avevamo mai pensato di doverne fare un selling point, il nostro fiore all’occhiello
Come è cambiato il suo lavoro nel corso del 2020 e come è cambiata la vita lavorativa dei manager di alto livello?
«Prima il mio lavoro era parzialmente online, adesso lo è interamente. Molti dei miei “alunni” hanno interrotto il training, sia linguistico che professionale, nella prima fase della pandemia, perché erano interamente concentrati su come riadattare il loro lavoro. Poi, al termine dell’estate, il 70% di loro ha ripreso, ovviamente online. In questo inizio 2021 i manager viaggiano meno, ma sono sopraffatti dallo stress».
Perché sono così stressati?
«Con il blocco dei licenziamenti su tutte le altre posizioni, i manager sono gli unici che le aziende possono licenziare, e le loro carriere sono a rischio. Molti dicono che gran parte delle aziende continueranno a mantenere le loro attività online anche dopo la pandemia, ma io non penso sia sostenibile. Né per le aziende, né per gli altri miei studenti, gli universitari».
La didattica online ha travolto i giovani di tutto il mondo, ma scuole e università sembra non fossero pronte a fronteggiare il cambiamento. È d’accordo?
«Le aziende erano abbastanza pronte, ma il mondo dell’istruzione no. Avrebbero dovuto formare insegnanti e studenti già da tempo, non in piena emergenza pandemica. Dal punto di vista dello studio non credo ci siano stati grosse mancanze, ma ricordiamoci che la scuola non è solo quello».
Cosa intende?
«Quando io insegno hindi, non sto insegnando solo la grammatica, sto trasmettendo anche il mio sapere e la mia cultura, molto di questo avviene attraverso il linguaggio non verbale, che si perde del tutto online. La DAD ha anche accentuato le differenze sociali. In India per esempio le scuole più ricche erano già molto digitalizzate e non hanno perso una settimana di didattica, ma sono le fasce meno abbienti ad essere penalizzate, in ogni parte del mondo».
Nella scuola del villaggio indiano di Naya, che si trova nel Bengala Occidentale, con cui collaboro, i ragazzi vanno a scuola anche per ricevere un pasto. La stessa cosa succede in una scuola a San Francisco dove lavora una mia amica e collega. A Naya come a San Francisco ci sono ragazzi che se non vanno a scuola, non mangiano
Kamala Harris, un’americana di origini indoafricane, entra alla Casa Bianca. Che valore ha per lei la comunanza di origini, e quanto nel suo caso il background culturale ha influito nella sua carriera?
«A differenza di molte altre storie di discriminazione, le mie origini indiane sono state un vantaggio, hanno sempre suscitato un’aura di curiosità. Ma io non ho mai dato troppa importanza alla nazionalità, mio padre mi diceva sempre: “Prima di essere qualunque altra cosa, dobbiamo essere esseri umani”. Per questo di Kamala Harris mi rende fiera il fatto che sia una donna, più che il background culturale che abbiamo in comune. Non capisco molto il senso di celebrare una persona perché si proviene dalla stessa terra, io la celebro perché come donna è riuscita a farsi largo in un mondo di maschilismo e pregiudizi, combattendo le stesse difficoltà con cui molte donne si confrontano nel corso della loro carriera lavorativa».
Come vede la (auspicata) ripresa del 2021?
«Mi auguro che gli aspetti positivi del digital rimangano e rafforzino le potenzialità lavorative. Quando vado in India, per esempio, solitamente devo interrompere le mie lezioni in Italia, ma con un potenziamento della didattica in remoto questo non sarà necessario. Spero però in un ritorno al contatto umano nella sfera lavorativa, ci vuole un equilibro e un’integrazione tra le due cose. Non avrebbe senso arroccarsi sui mezzi del passato, perché nella storia dell’uomo l’unica cosa che davvero non cambia è il cambiamento.
È necessario uscire da un metodo lavorativo di comfort zone e sviluppare migliori skills per ottimizzare il lavoro online. Al momento i nostri mezzi virtuali non sono ancora abbastanza avanzati per sostituire efficacemente l’approccio in presenza