Milano ha deciso di giocare la sua partita. Quella sull’accoglienza e sull’apertura mentale della metropoli. Lo ha fatto in tutti questi anni durante i quali in molti hanno scommesso sull’opposto. Ossia sulla capacità di costruire e capitalizzare consenso attraverso la potenza del rancore.
E proprio in questa cornice, il 27 maggio scorso, si è tenuta una giornata sportiva molto particolare. Per diverse ore, infatti, la storica Arena – il luogo che nel 1910 vide il debutto della nazionale italiana di calcio – ha ospitato due iniziative che si sono in qualche modo passate il testimone. Prima i bambini , diverse centinaia, coinvolti attraverso “Sport senza frontiere day”, hanno invaso il prato verde portando bellezza, sorrisi e competizioni sfrenate, poi si è svolta la finale del primo torneo di calcio a sette organizzato tra squadre di migranti ospitati nei centri di accoglienza del territorio.
Torneo che abbiamo chiamato “Terzo Tempo”, proprio per evocare il tradizionale momento conviviale che si tiene nel mondo anglosassone dopo le partite di rugby, quello in cui i giocatori delle due squadre – ma spesso anche le loro famiglie e i tifosi – si ritrovano a bere e mangiare insieme per lasciarsi alle spalle lo “scontro” e le tensioni del match. L’incontro, appunto, era l’idea da cui partiva questa manifestazione sportiva: incontro tra i migranti certo, ma anche incontro tra i milanesi di nascita e quelli di adozione.

Se poi diamo un’occhiata al sottotitolo scopriamo il secondo significato della manifestazione: “A Milano nessuno sta in panchina”. In sei parole si riassume lo spirito di questa città (o forse di una parte di essa?) in cui nessuno, davvero nessuno, deve rimanere in disparte. Migliaia di milanesi dedicano una porzione del loro tempo a fare volontariato insieme alle realtà del terzo settore, ma altrettanti, pur non essendo organicamente inseriti all’interno delle centinaia di organizzazioni che operano nella metropoli, partecipano alla vita della città e se ne prendono cura.
Non solo. La giornata di sport di cui ho parlato si inserisce nella maratona “Insieme senza muri”, cioè il palinsesto che abbiamo inaugurato il 20 maggio con l’apertura di Casa Chiaravalle – il bene confiscato più grande della Lombardia che è diventato un condominio solidale per le donne vittime di violenza o che vivono in una condizione di disagio abitativo – e che si concluderà con una tavolata planetaria al Parco Sempione il 23 giugno, un momento in cui migliaia di persone condivideranno il cibo e le storie legate ad esso. L’iniziativa, che affonda le sue “radici” nella marcia dei 100mila del 2017, vuol dire una cosa semplice e complicata insieme: si può fare.
Si può vincere la sfida dell’accoglienza, dalla convivenza positiva, della cosiddetta integrazione. Per questo motivo servono scelte politiche potenti (e vedremo cosa accadrà dalle parti dell’Europa e in Italia) ma, pure, scelte di fondo, sul piano dei principi: scommettere sulla relazione con l’altro da sé, provare a vincere la dinamica dell’emergenza e della paura. In altre parole mettere al centro, di tutto, la persona.

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