Vladimir Luxuria del suo libro ha detto: «Il più grande potere di un libro è spesso quello di farci conoscere altre vite, storie umane di persone distanti da noi storicamente, geograficamente e socialmente. I libri rendono confidenziale l’alterità scoprendo nella diversità altrui le nostre potenzialità in essere. Fra i tanti dotati di questo pregio ne cito uno, La casa dei ricordi di Amilca Ismael». Amilca Ismael è nata a Lourenço Marques (Maputo) in Mozambico nel 1963. Nel 1986 ha sposato Massimo e si è trasferita in Italia. Ha quattro figlie. Nel 2008 pubblica il suo primo romanzo, La casa dei ricordi, con cui vince numerosi premi tra cui “Il Premio Internazionale Donna dell’anno” dell’Università della Pace della Svizzera Italiana, nel 2010. Ma il suo grande pregio ai nostri occhi, che è anche un interrogativo, è il seguente: ci voleva una cittadina di origine africana per conservare le memorie dei nostri anziani? Forse sì perché è in questo apparente paradosso che si cela il cambiamento della nostra società. Come si intuisce dalla sua storia, raccontata da lei stessa. 

Sono nata in Mozambico, da padre musulmano e madre cattolica, eravamo otto tra fratelli e sorelle. Ognuno di noi fratelli, crescendo, ha deciso a quale religione aderire. Io sono cattolica come mia madre, alcuni miei fratelli hanno scelto di esseri musulmani come papà. Questo dimostra che nei luoghi in cui non c’è fanatismo, si può vivere in armonia.

In Mozambico ho conosciuto un ragazzo italiano, quando ci siamo rivisti in Portogallo, dove studiavo, abbiamo deciso di sposarci in pochi giorni. Era il 1986, siamo ancora insieme.

Quando Massimo comunicò a sua mamma che si sarebbe sposato, lei non la prese benissimo. Noi siamo stati controcorrente, pensate a cosa si andava incontro a sposare una nera e portarla a Solbiate Olona, nel 1986.

Ma, allora, tutto quello che gli altri avevano nei miei confronti era solo curiosità. E una volta soddisfatta, ha portato per me ad una piena integrazione. Adesso, invece, non è più così: lo sguardo degli altri non è più curioso, ma pauroso e diffidente. Questo nuovo modo di guardarci mi fa paura, mi fa temere per le mie figlie e per i miei nipoti. Le mie figlie sono italiane, eppure oggi vengono guardate con timore. Non ho mai considerato gli italiani razzisti perché durante la guerra di liberazione nel mio Paese l’unica ambasciata che non ha mai chiuso è stata quella italiana e la pace fu firmata a Roma. Oggi, però, qualcosa è cambiato. Ad esempio, anni fa non sarebbe mai successo che dei ragazzini si potessero permettere di insultarmi mentre me ne stavo seduta sul balcone di casa mia. Non sarebbe stato neanche immaginabile, eppure mi è successo. Li ho cercati per il paese, ne ho trovato uno e gli ho spiegato che non era giusto, non mi ha detto nulla perché non era più in branco. Tutto questo mi preoccupa molto. Ho fatto molti lavori, fin quando, a trentanove anni, decisi si tornare a scuole e prendere il diploma di assistente socio assistenziale.

La prima volta che entrai in una casa di riposo pensai a quanto fossero fortunati gli anziani italiani ad avere un posto dove vivere dopo tanti anni di lavoro e rinunce e sacrifici. Quel giorno ebbi la sensazione di vivere in un mondo parallelo a quello degli anziani africani che vivono per strada, nei campi o in coda per ricevere assistenza medica.

E invece quello che ho trovato successivamente è stato ben altro: gli anziani erano lì, seduti ad aspettare che qualcuno gli desse una mano per fare le cose più elementari. I loro sguardi erano vuoti, guardavano un punto immaginario e pensavano a chissà cosa. Forse avevano voglia di urlare, cantare, chiacchierare, di un bicchiere di birra oppure solamente voglia di morire. Confesso che era la prima volta che vedevo tanti anziani tutti insieme, seduti sulle carrozzine ben ordinate come nel parcheggio di un centro commerciale.

Con il tempo capii che a questi anziani non serviva solamente assistenza manuale ma principalmente qualcuno con cui parlare. Così entrai nella loro vita facendoli parlare, raccontare. Un giorno, decisi che anziché fare le solite animazioni di canto, manipolazione e altro, avrei fatto finta di essere con le mie amiche e chiacchierato di tutto. Allora esordii: «Raccontiamoci quando abbiamo fatto l’amore la prima volta». Questa semplice richiesta ha scatenato racconti divertenti, trattati su come convincere lo sposo della propria verginità perché, come mi diceva una di loro, «Cioccolatino, ma davvero credi che fossimo tutte illibate?»

Tra loro anziani c’era una donna di cinquant’anni, costretta da una malattia a stare nella casa di cura. La storia di questa donna mi fece molto riflettere: la sua era stata una vita intensa, vissuta freneticamente, fino a quando la malattia l’aveva costretta a fermarsi. Da cacciatrice di storie che, come nella mia tradizione, trasmettevo oralmente, ho deciso di scriverle per le mie amiche, perché leggendo la storia di Rita, vissuta correndo, riflettessero su quanta di questa vita perdiamo durante la corsa. Dare voce a queste storie mi ha anche aiutato capire chi fossero loro, ad accettare il mio soprannome “cioccolatino”. Ad avere pazienza con una donna che non voleva essere toccata o sfiorata da me, e alla fine voleva solo me, senza però per questo rinunciare a chiamarmi “negretta” fino a poco prima di morire.

Io ho raccontato la solitudine delle mie “vecchiette” e allo stesso tempo le loro storie, così belle e destinate a scomparire con loro. Sarebbe stato un peccato perdere questo patrimonio di memoria. La fortuna di questo mio primo libro, che era destinato solo alle amiche, la devo a Vladimir Luxuria che lo ha letto e amato al punto da parlarne a molti. Lo portò anche alla Fiera del Libro di Torino.

Ho voluto continuare a scrivere e ho pubblicato altri due romanzi: Il Racconto di Nadia, ambientato in Mozambico e che narra la vita di una donna che, avendo sposato un musulmano, un giorno si è ritrova a condividere con un altra donna il suo letto coniugale. Poi Effimera libertà: la storia di una ragazzina di quattordici anni che con il pretesto di studio viene portata dal suo villaggio africano in Italia da un presidente di un’associazione umanitaria, ma una volta arrivata in Italia viene chiusa in una casa e costretta a fare la prostituta per uomini dell’alta società. Sono romanzi basati su vicende reali e raccontano di donne che hanno vissuto ai margini e non hanno più voce. Per questo scrivo: per dare voce a chi non ce l’ha.

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