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Tutta la filosofia di questo libro, che racconta la storia di uno dei più grandi giocatori afroamericani di basket – nato Ferdinand Lewis Alcindor jr., prima della sua conversione all’islam nel 1971 -, sta in una considerazione riportata nelle primissime pagine. Quando Kareem Abdul-Jabbar, come si chiama oggi, raccontando la sua Harlem degli inizi del secolo scorso, evoca l’intellettuale W.E.B. Du Bois: «Nell’ambito della discussione su come gli afroamericani dovessero chiamare se stessi, W.E.B. Du Bois si schiera per la parola Negro purché scritta maiuscola, come in inglese si fa per American». Sembra una questione minuscola. Una sottigliezza semantica. Negro sì, negro no. Contano le maiuscole ma pure chi le pronuncia. Nell’America di oggi, nei ghetti o tra i rapper, non è inusuale che gli afroamericani si chiamino nigger tra di loro. Sono fratelli, se lo possono permettere. Ma quando il coach Jack Donohue sprona il giovanissimo Kareem Abdul-Jabbara a dare il meglio di sé in una partita difficile e gli urla: «Non fai niente di ciò che dovresti fare. Ti comporti proprio come un nigger!», al futuro campione ancora in erba si apre un mondo. Il coach, dopo la vittoria in quella partita sudata, gli confessa che aveva usato quella parola detta in modo offensivo proprio per spronarlo. «Donohue non pensava di avere agito da razzista, solo da motivatore. (…) L’insulto non stava nelle sue intenzioni, stava nel fatto che non si era reso conto del danno personale che era pronto a causare per poter vincere. Per una ragione o per l’altra, era convinto di potersi permettere di usare quella parola per me».
Era solo l’estate del 1964. Il carattere di uomo e di campione di Kareem Abdul-Jabbar doveva ancora esplodere. Il suo palmares non ha uguali: esordio nella Nba appena cinque anni dopo coi Milwaukee Bucks, primo titolo nel 1971, nel 1975 trasferimento record ai Los Angeles Lakers per 1 milione e 400 mila dollari. Da lì solo trionfi: in un ventennio di carriera fino ai quarantadue anni, quando appende definitivamente le scarpe al chiodo, Kareem Abdul-Jabbar è il top player di sempre con 38.387 punti, colleziona 18 All-Star Games, 243 play-off con una media di 24,3 punti e 10,5 rimbalzi vincenti a partita.
Ma poi c’è l’uomo che inonda d’inchiostro questo libro. L’uomo ancora attaccato alle sue radici. Ad Harlem, che da ghetto dei neri di New York diventa il simbolo degli afroamericani e della loro cultura. Un quartiere che per alcune speculazioni edilizie sbagliate si apre ai neri in fuga dalla malsana Downtown. Nel 1905 a Manhattan ci sono 4 mila afroamericani, nel 1920 sono già 84 mila, dieci anni dopo sono 300 mila pari al 60% della popolazione complessiva del quartiere. Troppo tardi anche per il monito del giornale bianco di quartiere Harlem Home News che strilla: «Gli invasori sono alle porte e fanno un gran baccano per entrare». Parole che un secolo dopo si sentono ancora dire di là e di qua dall’Atlantico.
Il libro di Kareem Abdul-Jabbar non è solo la sua storia e quella del quartiere dove è nato. È la storia anche di una cultura e di una passione. Quella per la musica jazz, che arriva a casa attraverso il padre diplomato alla Juilliard School e musicista semiprofessionista. Attraverso di lui Kareem conosce la musica di Thelonious Monk, Charlie Parker, Dizzy Gillespie. Una passione che cresce con gli anni e con nuovi protagonisti, da John Coltrane a Miles Davis. Dal “gancio cielo” inventato trovando un nuovo modo di andare a canestro, alla musica jazz e agli scrittori, il libro è un percorso soprattutto umano e culturale come scrive lui stesso: «Scrittori e jazzisti mi hanno reso una persona migliore». Un giorno gli chiesero cosa sarebbe diventato se non avesse giocato a basket: «Un insegnante di storia». Dopo la prima gomitata, dura e volutamente formativa, ricevuta dal padre sul campetto dietro casa, aveva pensato di darsi al baseball: «Sì al baseball, di sicuro non alla pallacanestro, mai alla pallacanestro». La storia alla fine è andata come è andata. Ma non sono state solo le sliding doors della vita a decidere per lui. Oggi che ha settantun anni, tre bypass coronarici e magari fa più fatica di un tempo a stare eretto lungo tutti i suoi 2 metri e 18 centimetri, Kareem Abdul-Jabbar in questo libro non vuole solo che lo si ricordi per le sue performance da campione sportivo. E alla fine esce quell’insegnate di storia che lui giura di essere sempre stato: «Studiate la storia della vostra gente, per vedere la grandezza che ha saputo raggiungere e capire di quale grandezza siete capaci».