Joanna Borella, 53 anni, è una donna che vanta un primato: la sua è stata la prima adozione internazionale in Italia. Oggi è però famosa per tutt’altra ragione: allenatrice CSI, educatrice sportiva e operatrice d’infanzia, è una vera e propria istituzione del calcio femminile nel quartiere milanese di Nolo, dove è conosciuta come Mister Jo. La sua società, Bimbe nel pallone, conta tre squadre: una per bambine delle elementari, una mista per adolescenti, i “Nolers Mix”, e una per donne adulte, “Mamme nel pallone”. Il suo è uno dei dieci progetti scelti dalla Fondazione Candido Cannavò.

Com’è nato l’amore per il calcio?

«Io sono arrivata dall’India il 12 novembre 1967, a un anno e tre mesi. A quell’età normalmente i bambini camminano: io non lo facevo perché, stando nell’orfanotrofio di Belgaum insieme ad altri 150 bambini e una sola suora missionaria, lei non aveva il tempo per poter star fisicamente dietro a ciascuno di noi, sorreggendoci e insegnandoci a camminare. Ma una volta in Italia, vedendo i miei due fratelli che giocavano a calcio, in meno di una settimana ho iniziato a correre dietro a loro e al pallone, e mi sono alzata in piedi. Da allora, raccontava la mia dolce mamma, ho sempre avuto con me il pallone».

Le hanno raccontato anche qualcosa sull’adozione?

«Quando i miei genitori mi hanno adottata avevano già due figli, e mio padre, che era architetto e solo successivamente è diventato urbanista, lavorava per il Comune, mentre mia madre per la Regione: ricchi certo non erano. Tra i loro amici c’era questa coppia, lui medico e lei giudice del Tribunale dei Minori: sono partiti per l’India e sono capitati nell’orfanotrofio di Belgaum. Una volta tornati, hanno raccontato come era la situazione e i miei genitori hanno preso la decisione di adottare, pur avendo già due figli».

Foto di famiglia

Immagino non sia stato un percorso semplice.

«L’adozione è stata una fatica perché nel 1966 preparare tutte le pratiche e avere contatti con l’India non era facile. La mia è stata la prima adozione internazionale in Italia. Quattro anni dopo il mio arrivo i miei genitori hanno adottato anche Cristiana, nata a Bologna e afrodiscendente. Alla fine, nella zona di piazzale Libia e viale Cirene eravamo in tre provenienti dall’India, oltre a mia sorella».

Quindi è cresciuta in un contesto in cui non era l’unica.

«A scuola eravamo 4 su 1500 studenti, quindi ho sempre fatto parte di una minoranza. Io me ne sono sempre fregata, ma negli anni me ne sono capitate diverse. Ancora oggi, quando vado in Comune, mi danno del tu e tendono sempre a indicarmi la fila per il permesso di soggiorno. A volte rispondo sarcasticamente: “Vado nelle cucine, non si preoccupi”. Altre mi fermo e chiedo a chi mi tratta così da quanto viva a Milano: “Mi sun chi prima de ti“, ribatto. Rimangono sempre secchi sentendomi parlare milanese».

Più milanese di così, in effetti, è difficile.

«Mia nonna materna era del centro di Milano, abitava in Santa Sofia, e per lei Nolo era campagna. Io mi ci sono trasferita nel 1990. Mia madre era assistente sociale e in quegli anni lì, come può immaginare, non è che fosse facile. Si è occupata dei corsi per analfabeti, lavorando in tutti i paesini di provincia, Paullo, Mombretto, Melzo e ritorno. A volte la accompagnavo: mi piaceva vedere l’adulto che non sapeva scrivere e imparava sillabando con lei. Rimanevo affascinata da una persona grande e grossa così che ci metteva tutto quel cuore e tutta quell’anima per imparare».

Un bell’insegnamento.

La cosa che mi fa star male è che alcune delle persone che oggi trattano male gli immigrati, hanno subito anche loro questo trattamento. Ma hanno avuto chi li ha aiutati – tra cui la mia mamma – e ora li trovi con la villetta in Brianza: non capisco perché debbano trattare con disprezzo chi sta vivendo una situazione come quella che hanno vissuto loro. Seguendo le orme di mia madre all’epoca, mia sorella Cristiana oggi porta avanti dei corsi di italiano per stranieri al Parco Trotter.

Molti aspetti della sua vita sembrano girare attorno al Parco Trotter di Milano.

«Quando ho avuto il mio primo figlio non avevo un vero lavoro e nessuno mi aiutava. Ho scoperto che all’interno del parco Trotter c’era una iniziativa chiamata “Il tempo per le famiglie”: portavi il tuo bambino e stavi lì con lui, in stanze divise in base all’età. Le mamme apprensive stavano addosso ai bambini, quelle non apprensive – come me – le ritrovavi giocare in corridoio a calcio. Il Trotter mi ha salvata, ma pure io sono stata capace di salvarmi».

Ed è nata la scuola calcio.

«Mi sono divertita un sacco a giocare con i maschi e ad essere sempre l’unica donna del gruppo, ma ho aperto Bimbe nel pallone perché le ragazzine avessero la possibilità di entrare in una scuola calcio. Se giocano in società come quote rosa, quando raggiungono i 11 o 12 anni vengono mandate via, perché nei tornei non sono ammesse le squadre miste. La mia rivincita oggi è poter dire, a chi ci vede palleggiare con le bambine, “non stiamo solo giocando, qui stiamo facendo scuola calcio”».