Nell’incontro della settimana prima altri ragazzi, non tutti gli stessi, avevano partecipato alla lezione incontro con
Christopher Veggetti Kanku, il pittore afrodiscendente figlio della modernità. Alla fine uno di loro, anche nei lati oscuri di Milano, dove la diversità viene guardata con sospetto e il razzismo sottile dilaga. I ragazzi ne sono consapevoli. Lo vivono sulla loro pelle scura e asiatica. Fa parte del quotidiano. Non è più nemmeno una cosa che fa paura. Ci si convive. Anche con il gioco. Menna dai lunghi capelli neri ondulati a un certo punto dice: «Io sono negra». C’è una “g” di troppo, si capisce. Ma va bene lo stesso. Del resto negli Usa tutti gli afroamericani si definiscono “nigger”. Detto da loro è fratellanza. Detto da altri un insulto.
Un ragazzino con una t-shirt nera da boxeur mette le mani avanti: «Mi piace la maglietta ma io non ho mai fatto una rissa». Una ragazzina lo prende in giro: «Allora io sono un maschio!». Coi pennarelli sui foglietti di carta sgocciolano parole intense. Razzismo, diversità, disuguaglianze sono i temi su cui queste due dozzine di ragazzini e ragazzine ragionano ad altra voce confrontandosi con il gruppo. «Sti bulli arroganti!!!» piace a tutti. Fa parte di un’immaginabile vissuto. «Dire ebreo a una persona non è un insulto. Ma dipende come lo dici», si fanno disquisizioni semplici che i “grandi” nemmeno capirebbero, vittime del politicamente corretto o dell’odio razziale dipende da che parte si giri la frittata. E poi ancora: «L’apparenza inganna», «Amici a parole», «Amici, amici, ma poi ti rubano la bici». Il brain-storming continua fino a quando non si trovano le parole giuste. I ragazzi si schierano.
Menna è la prima a parlare: «Sono nera». Segue un coro: «Siamo neri!». E ancora: «Il colore non è la persona». Ci si muove in gruppo, come particelle nello spazio, a occupare quel luogo sicuro: «Sono diverso, sono diverso, sono diverso dagli altri». Poi ci si ferma e la riflessione si fa più arguta: «E mi va bene così! Una cicatrice nell’anima! Non giudicare se non sai!». Parole che andrebbero scritte sui muri. Segue inchino, applauso liberatorio e risate. Sono passate due ore. È teatro. È vita. Paolo Pintabona, il regista protagonista di mille laboratori teatrali è più che soddisfatto: «Hanno tirato fuori il loro vissuto. Sono parole scelte da loro». I ragazzini filano via nel buio del quartiere. I video andranno montati e poi musicati. Ma intanto: buona la prima!