Lo diceva Glauco Mauri, uno dei più grandi attori teatrali del Novecento e degli ultimi decenni, scomparso da poco: «Il teatro è un gioco serissimo». E serissimi sono Asia, Sofia, Miriam, Lion, Giorgia, Andrea, Luciano, Gabriel, Gianfranco, Arianna, Cyrus, Zephir, Menna, Alessia, Mary e gli altri ragazzi impegnati in questo laboratorio teatrale al Centro Aggregazione Giovanile di via Saponaro al Gratosoglio, organizzato dalla cooperativa sociale Lo Scrigno, dalla Fondazione Ismu e NuoveRadici.world, nel progetto Inspire Me sostenuto dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali UNAR, in occasione della Settimana Antirazzismo dal 17 al 23 marzo.

La generazione Alpha del Gratosoglio

Il Gratosoglio è uno dei quartieri difficili di Milano, come lo definiscono gli amministratori che da decenni non si occupano di periferie, preferendo lucidare le vetrine scintillanti del centro. I ragazzi, scuola media e primi anni delle superiori, non sembrano preoccuparsene. Hanno felpe colorate, trecce lunghe, tute sportive, piercing, sneakers e cappellini. La divisa è quella dei ragazzini della generazione Alpha di tutto il mondo. Hanno smartphone e cuffiette. Sentono la trap e Sanremo. «Adoriamo Marracash e Tony Effe». Sono italianissimi anche se qualche nome tradisce la provenienza delle famiglie di origine dalle quali vengono, o discendono se già di seconda generazione, da Marocco, Egitto, Tunisia, Bangladesh, Filippine, Equador, la geografia delle migrazioni da tutto il mondo.

Molti di loro hanno già fatto esperienze simili in laboratori teatrali. E poi si sa che il teatro è un gioco. Paolo Pintabona, attore, regista, drammaturgo, sceneggiatore, ci mette niente a coinvolgere i ragazzi nel teatro. «Fate la bolla. Occupate gli spazi», incita i ragazzi che si muovono fluidi nello stanzone de Lo Scrigno dalle pareti colorate e una grande scritta sulla lavagna: “Il luogo dove ti senti a casa”. Riccardo Apuzzo, film maker, docente, formatore e ricercatore, riprende tutto con taglio professionale con un telefonino.
Una ragazza con la felpa grigia lo imita. Sceglie bene le inquadrature. Questa è la generazione dei nativi digitali.
Paolo il regista che guida l’azione scenica dà indicazioni precisa: «Adesso ci prendiamo un posto sicuro nello spazio». Una frase scaturita nel gioco che vale un libro intero. In questo mondo dove gli spazi sicuri sono sempre più ristretti. I ragazzi si incollano al muro immobili. Qualcuno siede sui tavoli. Altri si sdraiano. Asia chiede ma si capisce che non è una richiesta di permesso: «Se mi metto sotto al tavolo va bene?».
«Azione!», grida Paolo come in un film vero. Ma questo è un film più vero del vero. Dalla forma si passa presto al contenuto. La pièce teatrale deve arricchirsi di parole che abbiano un senso. Ma va bene anche il gioco. Qualcuno suggerisce «chocolat al latte», con quel mix di francese e italiano senza distinzioni. È un flusso di coscienza senza barriere: «Oggi ho mangiato il pollo!». Va meglio quando un ragazzino con la famiglia sudamericana attinge alle sue radici: «W l’Ecuador». C’è già un senso di appartenenza. Di comunanza identitaria.

Non giudicare se non sai. Le parole dei ragazzi del CAG

Nell’incontro della settimana prima altri ragazzi, non tutti gli stessi, avevano partecipato alla lezione incontro con Christopher Veggetti Kanku, il pittore afrodiscendente figlio della modernità. Alla fine uno di loro, anche nei lati oscuri di Milano, dove la diversità viene guardata con sospetto e il razzismo sottile dilaga. I ragazzi ne sono consapevoli. Lo vivono sulla loro pelle scura e asiatica. Fa parte del quotidiano. Non è più nemmeno una cosa che fa paura. Ci si convive. Anche con il gioco. Menna dai lunghi capelli neri ondulati a un certo punto dice: «Io sono negra». C’è una “g” di troppo, si capisce. Ma va bene lo stesso. Del resto negli Usa tutti gli afroamericani si definiscono “nigger”. Detto da loro è fratellanza. Detto da altri un insulto.
Un ragazzino con una t-shirt nera da boxeur mette le mani avanti: «Mi piace la maglietta ma io non ho mai fatto una rissa». Una ragazzina lo prende in giro: «Allora io sono un maschio!». Coi pennarelli sui foglietti di carta sgocciolano parole intense. Razzismo, diversità, disuguaglianze sono i temi su cui queste due dozzine di ragazzini e ragazzine ragionano ad altra voce confrontandosi con il gruppo. «Sti bulli arroganti!!!» piace a tutti. Fa parte di un’immaginabile vissuto. «Dire ebreo a una persona non è un insulto. Ma dipende come lo dici», si fanno disquisizioni semplici che i “grandi” nemmeno capirebbero, vittime del politicamente corretto o dell’odio razziale dipende da che parte si giri la frittata. E poi ancora: «L’apparenza inganna», «Amici a parole», «Amici, amici, ma poi ti rubano la bici». Il brain-storming continua fino a quando non si trovano le parole giuste. I ragazzi si schierano.
Menna è la prima a parlare: «Sono nera». Segue un coro: «Siamo neri!». E ancora: «Il colore non è la persona». Ci si muove in gruppo, come particelle nello spazio, a occupare quel luogo sicuro: «Sono diverso, sono diverso, sono diverso dagli altri». Poi ci si ferma e la riflessione si fa più arguta: «E mi va bene così! Una cicatrice nell’anima! Non giudicare se non sai!». Parole che andrebbero scritte sui muri. Segue inchino, applauso liberatorio e risate. Sono passate due ore. È teatro. È vita. Paolo Pintabona, il regista protagonista di mille laboratori teatrali è più che soddisfatto: «Hanno tirato fuori il loro vissuto. Sono parole scelte da loro». I ragazzini filano via nel buio del quartiere. I video andranno montati e poi musicati. Ma intanto: buona la prima!