Delle tante cose che colpiscono nel documentario di Benedetta Argentieri I am the revolution, una coproduzione Possibile Film e Rai Cinema, recentemente messo a disposizione del pubblico sulla piattaforma di RaiPlay, ce n’è una che accomuna le tre donne protagoniste: lo sguardo alto. Nel 2017, la regista e corrispondente di guerra (il film è uscito nelle sale nel febbraio del 2019) ha seguito per alcuni mesi la portavoce di Hambastagi (il partito della solidarietà dell’Afghanistan, l’unico partito laico del Paese) Selay Ghaffar, la comandante delle truppe SDF (Syrian Democratic Forces) Rojda Felat e l’attivista irachena per i diritti delle donne Yanar Mohammed. Vedere oggi un documentario del genere, nei giorni delle violente repressioni delle proteste delle donne afgane seguite al ritorno dei talebani che proprio in queste ore hanno formato il nuovo governo, dopo aver avuto gli occhi pieni delle immagini delle fughe disperate dall’aeroporto di Kabul, getta sì nello sconforto, ma rinsalda nella convinzione che la loro rivoluzione non si possa fermare.

Selay Ghaffar e le altre donne di I am the revolution

Hanno paura del potere delle donne… sanno che se le donne sono unite e sono educate, non potranno più opprimerle

Queste parole non sono state pronunciate sul palco di un TED, ma sono di Selay Ghaffar davanti a una gruppo di donne (tutte in burqa) riunite per ascoltarla a Wulis Daraa – e nemmeno Google in questo caso ci è utile a individuare il punto esatto in cui si trovi – nel 2017. Quando lei chiede come possa aiutarle, una donna risponde mettendosi di fronte a Ghaffar per avere la libertà di alzare il burqa e guardarla negli occhi e domanda corsi di cucito, scuole, strade adeguate e un lavoro.

“I am the revolution”

Nel documentario, non viene nascosta la pericolosità della vita condotta dalla portavoce di Hambastagi, che, come lei stessa racconta alla telecamera guardando fisso davanti a sé, riceve costanti minacce ed è sfuggita a rapimenti e uccisioni. E un esempio del coraggio – suo e delle altre donne che vi hanno partecipato – viene dato verso la fine di I am the revolution, quando, nonostante l’intimazione della polizia di fare in fretta perché ad alto rischio di un attentato da parte dei talebani, dell’Isis e dei gruppi fondamentalisti, viene deciso comunque di fare un picchetto a Jalalabad. Una manifestazione che rimanda a quelle per il diritto al lavoro, all’istruzione, alla vita e contro la minaccia dell’oscurantismo talebano che si sono viste in questi giorni a Herat e a Kabul. Tutte donne con il capo coperto e con lo sguardo alto.