Il 5 agosto 2016 mi capitò di toccare la pelle di un negro. Era un’epidermide secca, un tessuto che si faceva abbacinante nella zona palmare, un avorio insospettabile in quel complesso misterioso che è un negro. I riccioli cortissimi e fitti davano l’idea di una saggina ritorta o fil di ferro incarbonito e le labbra sporgevano troppo per i nostri canoni antropometrici. Lo sguardo, non affatto tremulo, ma certamente allucinato, risultava inquietante per un’apparenza di consapevolezza che sembra sfuggirci e giudicarci silenziosamente. L’odore speziato, che promanava dall’epidermide, testimoniava di una esotica distanza alimentare dal nostro regime enogastronomico. La semplicità degli abiti, anche, era una differenza che stona sempre: quali fondamenti e declinazioni ha l’eleganza per un negro? E la postura: se ne stava accovacciato, i talloni nelle natiche, in quella forma di appoggio arcaico, che tanto ci rende prossimi al sapiens prima maniera. Ecco un negro.
Ora ampliamo quell’inquadratura. Il negro non è solo: si accompagna a molti altri negri. Sono centottanta in tutto. Il territorio in cui si ritrovano è francese, è la città di frontiera Mentone. Se ne stanno abbarbicati su un glomerulo di scogli, rivolti a est, in direzione Ventimiglia. Indossano pochi stracci, sembrano sintetizzare una forma di antico terrore con una svagatezza dovuta alla rassegnazione. Condividono uno spazio angusto, assediato dalle onde marine, scrutano con preoccupazione i movimenti degli agenti di polizia francesi, che si sono sistemati a cordone sul lato in cui gli scogli introducono a un lungomare seminizzardo, sede di passeggiate securitarie della massa turistica e dei corpi speciali, quelli venuti a boccheggiare in Costa Azzurra e quelli precipitatisi a presidiarla, a pochi metri dal confine italiano.

Dietro il muro umano dei pulotti, oltre i cellulari e i pullmini convocati per caricare e ritrasportare oltrefrontiera quei diseredati, c’è la folla, che strepita sottovoce, in francese e in ciò che è diventata la lingua che fu di Dante. Questi corpi, prevalentemente di pensionati europei con il vizio del più retrivo tra i conservatorismi, rumoreggiano in una esosa verbosità che sarebbe stata delatentizzata a breve in Italia – è la risacca fastidiosa e imbelle che produce il qualunquismo più fascista, endemico e spregevole, a cui questi anni forniscono una possibilità di emissione collettiva.

In pratica, tutti quegli gli spettatori di un dramma in atto, sostengono che qui non c’è posto per loro, che sarebbero poi i negri, e che non c’è lavoro per noi e figurarsi per loro, che sono sempre i negri, e che loro sono venuti qui perché hanno visto la televisione e si sono ingannati, e sono i negri immaginati come teledipendenti, e che ognuno deve stare a casa sua e quindi loro devono tornare oltre le sabbie sahariane, terre notoriamente popolate dai negri suddetti. Questo borbottio, che accompagna la contenzione sugli scogli di naufraghi sopravvissuti a stento, è un intingolo venefico di saccenza e varia disumanità, l’effetto viscerale e disgustoso che è stato causato dall’impauperimento delle soglie di stratosferica ricchezza personale italiana e francese, dal 2010 in poi. Loro sono negri e un negro è un negro: ecco il nuovo, antichissimo nominalismo, con cui si aggredisce, si ignora, si manipola con crudele avventatezza l’altro. Il negro è davvero l’uomo nero e questi pensionati lepeniani e leghisti sono realmente simili a bambini: hanno paura dell’uomo nero.

Allargando l’inquadratura, si sarà notato che la mia mano, capace di arrivare là dove la schiacciante maggioranza dei presenti non vuole avventurarsi, ovvero a toccare la pelle del ragazzo di colore, è accompagnata dall’altra mano, che offre una bottiglia di acqua fresca. Questo gesto mi favorirà l’interesse della guardia nazionale agli ordini del presidente Hollande, una sorta di Danny DeVito apparentemente più innocuo e meno comico, in realtà intensivamente tragico, con cui si chiuderà la storia dei socialisti francesi di lì a un anno. Il divieto di passare bottiglie d’acqua a questi profughi, che sono riusciti a scavalcare la frontiera tra Ventimiglia e Mentone, riassume alla perfezione l’atteggiamento europeo su qualunque fronte migratorio, ma in particolare sul fronte negro.

C’è la violenza schierata ai confini dell’animo europeo, più che a quelli geografici, ma ci si impiega un nonnulla a fornire piena espressione geografica e poliziesca a una simile carica di rabbia, di esclusivismo, di rondismo incivile, in netto contrasto con la conquista dei diritti e delle libertà, che inizialmente parlarono proprio questa lingua blesa e tutto sommato monocorde: la conquista dei diritti umani è scritta anzitutto in francese.
Le tute blu degli agenti della gendarmerie hanno toccato anch’esse un negro: uno per uno, per centottanta volte. Li hanno stipati su pullman, che in un chilometro hanno percorso, metro per metro, la distanza che va dalla vergogna alla sopraffazione. Le mimetiche dei militari italiani hanno atteso i convogli, hanno fatto discendere, in un mutismo allucinogeno, quei corpi indeboliti, disidratati, non soltanto dei liquidi, ma dei diritti basilari con cui abbiamo appreso faticosamente a riconoscere il fallimento occidentale. Nel silenzio, la complicità prospera come un’erba mala, concresce, fino a invadere la piantagione, a rovinare la carta e il territorio, a ridisegnare le mappe secondo gli antichi codici del caos. Quei corpi sballottati, transitoriamente detenuti come mitili avvinghiati allo scoglio, hanno incarnato il simbolo supremo del suprematismo naturale non soltanto italico, ma propriamente europeo: sono scomparsi nel silenzio.

Questa scena, introdotta dal frame che l’aveva preceduta, ovvero il lancio di lacrimogeni sulla spiaggia sassosa di Mentone, per indurre i negri alla trappola sulla scogliera, è stata seguita dal fotogramma successivo a distanza di pochi giorni: sui binari che da Ventimiglia portano in Francia, sarebbe morto un migrante iracheno – dunque, finalmente, non un negro, dopo le dodici “morti accidentali” verificatesi in pochi mesi a quella mesta frontiera, tutta palme ammorbate dal punteruolo rosso.
A distanza di due anni, il negro è diventata un’ossessione nazionale. Lo era, sia chiaro, anche prima, ma il corso politico attuale ha esacerbato la dissociazione collettiva italiana, a un punto talmente apicale, che pare persa qualunque ipotesi di redenzione, per il popolino maggioritario nei sondaggi, che bercia asintoticamente rispetto alla realtà. È una questione di incultura sistemica, di incapacità politica di intervenire sui disagi che conducono alla dispercezione. L’Istituto Cattaneo ha appena rilasciato una rilevazione, da cui risulta che i cittadini italiani, in tutta l’Unione Europea, manifestano lo scarto maggiore «tra la percentuale di immigrati realmente presenti nel Paese, pari al 7%, e quella stimata o percepita, pari al 25%». Gli italiani ritengono che il Paese sia invaso da negri in un numero quattro volte la cifra reale. Non soltanto: risulta che gli italiani si classificano «nella posizione più estrema, caratterizzata dal maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose».

È il ritratto di un fallimento nazionale, la certificazione di una misconoscenza, elevata a valore e rilanciata dall’azione combinata tra intervento politico e comunicazione virale del medesimo, che col nuovo governo ha compiuto un salto di qualità, cioè di quantità. È una nazione borderline, tutta orgogliosa dei suoi border, quella che non si rende minimamente conto di essere tra gli ultimi Stati europei per numero di rifugiati accolti ogni mille abitanti, surclassata perfino dalla Svezia e dalla risibilmente vituperata Malta, per non dire da Francia e Germania. È un popolo in stato di psicosi, intento a riesumare i peggiori istinti che storicamente ne hanno fatto il tristo partoriente dell’idea fascista.

Che uno scrittore proponga soluzioni dovrebbe suonare sospetto. Lo scrittore è anzitutto una funzione di una più vasta e intensa dispercezione. Le criminali corbellerie, che gli scrittori sono stati in grado di escogitare e proporre alla scena politica, nella storia in cui dura questa figura meschinamente angelica e demonicamente solitaria, gridano vendetta al cospetto di un iddio, la cui religione non si è mai bene chiarita, nemmeno nella profusione di inchiostro che la loro totalità ha riversato sull’innocenza delle pagine bianche, il loro campo di battaglia e di elezione. Per quanto però sia sfuggente, altamente traditrice, infida e capace di dare espressione alle peggiori ambiguità, la sagoma di chi è chino a vergare il libro spalanca lo sguardo del tutto naturalmente sul fatto progressivo. È possibile ripetere la lezione di Victor Hugo, che sembrerebbe un reperto dell’ingenuità ottocentesca e invece esprime la ragione stessa di qualunque scrittura, da Omero al declino, forse definitivo, di questi anni. La domanda, per gli arresti e le soste inesplicabili a cui va incontro l’idea progressista nella sua traduzione in realtà, è sempre: di chi è la colpa? E dunque Hugo da lì comincia: «Chi incolpare? Nessuno – e tutti. Piuttosto, i tempi incompleti in cui viviamo. È sempre a suo rischio e pericolo che l’utopia si trasforma in insurrezione e che, da protesta filosofica, diventa protesta armata – da Minerva, Pallade. L’utopia, che si spazientisce e diventa sommossa, sa ciò che l’aspetta: quasi sempre essa giunge troppo presto. Allora si rassegna e accetta stoicamente, invece del trionfo, la catastrofe; serve, senza lamentarsi e magari discolpandoli, coloro che la rinnegano e la sua magnanimità consiste nell’acconsentire all’abbandono. È indomabile contro l’ostacolo e dolce verso l’ingratitudine. Del resto, è proprio ingratitudine? Sì, dal punto di vista del genere umano; no, dal punto di vista dell’individuo. Il Progresso è la maniera di essere dell’uomo. La via complessiva del genere umano si chiama Progresso; il passo collettivo del genere umano si chiama Progresso. Il Progresso cammina e compie il grande viaggio umano e terrestre verso ciò che è celeste e divino; ha le sue fermate, dove riunisce il gregge in ritardo, le sue soste in cui medita, al cospetto di qualche splendido Canaan che riveli all’improvviso l’orizzonte, le sue notti, durante le quali esso dorme. E una delle assillanti ansietà del pensatore è per l’appunto vedere l’ombra sull’anima umana e tastare nelle tenebre, senza poterlo svegliare, il Progresso addormentato».

È una elaborata professione di fede, che può servire da slancio per ribadire la soluzione, del tutto innaturale, che risiede nella libertà. La libertà non è percepita a priori come faro, come prospettiva. Dobbiamo accettare questo duro magistero della storia universale e di quella nazionale in particolare. Se si prende atto di una simile desertificazione dell’umano, che è ciò in cui l’umano tende a raggrumarsi per escludere e perpetrare il presidio alla frontiera, allora diviene possibile erigere l’albero dei valori, ai cui frutti alimentarsi. E la radice e il culmine di quell’albero è una parola cara al francese Hugo. È: libertà.

«Scappano dalle guerre e vogliono anche scegliere dove andare» si scandalizzava pochi giorni orsono l’emblema italianissimo dell’italianità più sovranista, che ha costretto i naufraghi a bordo di una nave militare italiana, giocando una partita di puro consenso belluino sulla loro pelle già segnata da abusi e torture in territorio libico. A questo uomo, se questo è un uomo, uno scrittore si permette di dire, in nome del progresso: esattamente, scappano da una guerra, per andare dove vogliono – si chiama libertà. Questa linea di fuga dalla realtà cronicamente e geneticamente oscurantista, ha un fratello, la fraternità, e una sorella, l’uguaglianza. Sono i perni con cui, non senza fatica e abbattimenti ripetuti e stalli sanguinosi, è stata eretta una società giusta, aperta, priva dell’asfissia a cui destinano quelle innaturali restrizioni che sono i confini.
Sembrerebbe tutto estremamente retorico, ma c’è poco da fare: la retorica, e quindi la persuasione, sono l’alimento e lo sterco di quella figura sbilenca che è lo scrittore. Ciò non toglie che se ne possano ricavare linee guida da applicare nell’azione politica, nel consenso che nasce dalla giusta percezione e dalla riflessione.Attraverso l’articolo sopra, possiamo consigliarti gli abiti più recenti. Acquista abiti in una varietà di lunghezze, colori e stili per ogni occasione dei tuoi marchi preferiti.

Quali, in questo passaggio storico? Eccole: è necessario aspirare e mirare e contribuire alla legittimazione della libera circolazione di Stato in Stato; bisogna giungere a concedere visti a chiunque li chieda; è imperativo impegnarsi a ribaltare la narrazione del potere che gonfia il consenso, nutrendolo di ignoranza e, quindi, di dispercezione. Sono richieste massimaliste? È il minimo. È la legge progressiva e non sarà possibile fermarne l’evoluzione, che da innaturale si fa naturalissima.
Libertà di circolazione, uguaglianza di tutti rispetto alla cittadinanza universale, maturazione dei conflitti impliciti nel progresso storico, abolizione delle paure tramite un innalzamento delle quote di cultura sociale e di educazione alla riflessione. È un programma politico, ciò significa che è realizzabile. È difficile da realizzare? Certamente – e dunque?
Occorrerà citare uno scrittore molto meno enfatico di Victor Hugo, ma ugualmente capace di perpetrare la propria letteratura come antivirus al male sociale, il quale altro non è che una spoglia di un male ben più assolutistico e imprendibile e, soprattutto, mai banale. È Franz Kafka. Non è semplice desumerne un progressismo, ma è possibile trarne una lezione per coloro che riportarono alla frontiera quei profughi, fratelli miei, vostri, di tutti, dispersi. Nel capitolo ultimo del suo romanzo incompleto Amerika, che inizialmente portava non per caso il titolo “Il disperso”, il protagonista, un ragazzo compìto proveniente dall’Europa, si trova espulso nel ventre nordamericano, fino a incontrare un sorprendente circo itinerante: si chiama Teatro Naturale di Oklahoma, chiunque può aspirare a esservi assunto e a condurre una vita all’altezza di ciò che sente e desidera. Il protagonista kafkiano si imbarca in questa patria universale e nomade, registrandosi all’anagrafe circense, pur privo dei documenti di identità. Gli chiedono, sulla fiducia, il suo nome e lui risponde questo: «Mi chiamo Negro».

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