Giovane milanese, sportivo, classe 1994: che Gian Marco Duina sia uno che s’infervori quando di parla di calcio non è cosa che stupisca. Lo è però il fatto che in questo momento gli argomenti che lo appassionano (e al quale sta dedicando un libro, in fase di scrittura) abbiano poco a che fare con dirigenze e calcio mercato, ma invece con razzismo, inclusione, migrazione e ius soli. Vicepresidente di Altropallone e promotore di diverse iniziative a tema sport e inclusione, come la prima squadra di calcio fatta soltanto da richiedenti asilo e rifugiati, St. Ambroeus FC., ovviamente sta seguendo il mondiale di calcio femminile in corso in Francia. Ma più che di (strepitose) vittorie azzurre, ci parla degli insulti razzisti subite dal capitano Sara Gama, sui social. Accuse alla giocatrice di mamma triestina e papà congolese, istantaneamente (e paradossalmente) sparite dopo la vittoria di Gama e compagne contro le fortissime avversarie australiane.
I soliti webeti da tastiera?
Il razzismo funziona così. È miope. Quando non si vince, o prima di una partita, piovono insulti inutili e ignoranti. Ma quando si vince, son tutti italianissimi.
«Certo, la bravissima Sara Gama sconta anche il fatto di essere donna, le discriminazioni che ha vissuto e sta vivendo il calcio femminile non sono poche. Però qui parliamo prima di tutto di ignoranza, ripeto. Ignoranza calcistica, tanto per dirne una. O scarsa memoria storica».
Nel 2006 abbiamo vinto i Mondiali e tra i protagonisti indiscussi c’era Mauro Camoranesi, argentino naturalizzato italiano. Volendo andare a ritroso, poi, l’Italia vinse il mondiale del 1934 con una nazionale che per il 34% era composta da figli di migranti argentini e brasiliani, italianizzati dal regime fascista.
Resta il fatto che gli insulti hanno colpito Sara Gama non sono una novità, per quanto riguarda il calcio italiano.
«Il razzismo nello sport è molto selettivo, si trasforma in una valvola di sfogo ulteriore per un ambito, quello del tifo calcistico, che troppo spesso ha mostrato un lato violento e diseducativo, negli stati come nei campetti per bambini. Penso al capitano della squadra di calcio del nostro St. Ambroeus. È senegalese, e quando gioca piovono insulti che vanno da “scimmione” a “torna nel barcone”. Poi nella sua vita di tutti i giorni, quando in giacca e cravatta fa da bodyguard per un negozio d’alta moda del centro di Milano, nessuno si fa problemi nell’affidargli la sua sicurezza, entrando in negozio».
Cos’è St. Ambroeus FC e come nasce?
Abbiamo creato la prima squadra di calcio di migranti e rifugiati, il St. Ambroeus, ad iscriversi al campionato Figc. A settembre inizierà la sua seconda stagione, con schierati giocatori originari da Paesi di tutto il mondo. L’esperienza sportiva è una forma positiva, gratuita e diretta di promuovere l’antirazzismo in campo, con la loro stessa presenza i nostri giocatori dimostrano come lo sport sia prima di tutto inclusione sociale, non il contrario.
Tra il dire e il fare, c’è lo ius soli sportivo, per evitare di escludere dai campi sportivi i piccoli giocatori stranieri.
«Io sono per uno ius soli sportivo immediato, fin dall’arrivo in Italia, sia a livello locale che di gare nazionali. Il problema, attualmente, è che i giovani sportivi che non sono nati in Italia non possono essere registrati in alcun albo. Possono essere tesserati, gareggiano come gli altri bambini o ragazzini, ma sono i loro risultati a non essere registrati. La mancanza di ius soli fa sì che, di fatto, non possano gareggiare, che è l’azione alla base dell’attività sportiva».
Qualche tempo fa, ad esempio, si è parlato della atleta 14enne, figlia di nigeriani, che ha stabilito il primato nazionale di salto con l’asta outdoor. Essendo minorenne, non ha ancora la cittadinanza italiana e il suo record, che è anche un record per l’Italia intera, non esiste. Per una ragazzina di 14 anni tutto questo è incomprensibile, e non solo per lei.
È questa la principale critica che muove alle istituzioni?
Purtroppo non è l’unica e neppure la più importante. Quello che stiamo vedendo con St. Ambroeus è come il decreto sicurezza vada a impattare sulla partecipazione sportiva dei richiedenti asilo, che non sono italiani ma vivono in centri d’accoglienza. Prevede infatti che non possano richiedere la residenza ma solo domicilio presso il centro d’accoglienza. Peccato che la residenza sia un requisito fondamentale per tesserarsi in una società sportiva.
Come pensate di risolvere questo blocco?
«Con la residenza sportiva, cioè con il tentativo di applicare una norma per la quale il residente asilo che si tessera ottenga la residenza nella sede dell’associazione per cui si tessera. Ci stiamo lavorando, perché è necessario trovare una soluzione ad un problema altamente discriminatorio. Come del resto abbiamo fatto con l’articolo 40 del NOIF, a dimostrazione che certe discriminazioni non nascono certo negli ultimi anni».
Cos’è il NOIF e di quali discriminazioni parla?
«L’articolo 40 comma 11 del NOIF (Norme Organizzative Interne FIGC) prevedeva come vincolo al tesseramento un permesso di soggiorno valido fino al 31 gennaio dell’anno successivo all’inizio della stagione calcistica. In altre parole, il fatto che un bambino potesse giocare in una quadra era legato in modo stringente al permesso di soggiorno dei genitori, che doveva essere valido almeno fino alla fine di gennaio dell’anno successivo all’inizio della stagione. Una quota non indifferente di bambini si è trovata ad allenarsi con i propri amici e compagni, per poi essere obbligata a guardarli giocare dagli spalti. L’articolo è ora stato abolito, ma la ricaduta umana per quei bambini è stata terribile. L’unica cosa che mi consola è che qualcosa di buono ne è venuto fuori».
Cosa le hanno mostrato?
«Ho visto che i bambini sono stati in grado di portare avanti delle riflessioni che noi adulti non viviamo in modo spontaneo. Non solo i piccoli di origine straniera, ma anche i loro compagni non capivano, in modo genuino, il perché di quelle situazioni. Le trovavano ingiuste, punto e basta. Un ulteriore segnale che il razzismo, nello sport, ha i giorni contati».
Come può esserne sicuro?
«Sto lavorando un a libro sul tema. Se guardiamo ai mondiali di calcio maschile che si sono succeduti dal 1930 al 2018, ci rendiamo conto che in un certo senso sono state lo specchio delle migrazioni in corso, in quel momento storico, ma anche che le nazioni che hanno saputo sfruttarle al meglio e in modo positivo, ne hanno beneficiato. Il dato in mio possesso è di circa una presenza del 10% di giocatori nati al di fuori dei confini della nazione per la quale hanno vestito la maglia, nel corso del Mondale. Se poi vogliamo tralasciare il numero, basta guardare alla vittoria francese e alla composizione multietnica ma orgogliosamente francese della quadra che ha vinto».
Multiculturalismo per necessità, per fame di vittoria, quindi?
Il contrario. Il multiculturalismo, l’inclusione sociale, non sono qualcosa che possiamo scegliere, con buona pace dei razzisti che vanno allo stadio. È qualcosa già in atto, che fa parte del presente. Ho sentito di recente un parallelismo che calza a pennello: è come essere al Polo Nord e dirsi contrari alla neve.
«Il calcio è uno sport di migrazione, nasce dai migranti inglesi, che giocavano nei porti. La maggior parte delle squadre brasiliane nascono da immigrati italiani. Lo stato costitutivo del Palmeiras parla di “palestra italiana calcio”. Oggi, tentare di fermare tutto questo è semplicemente ridicolo».