È una gara ben macabra, quella che a fasi alterne ci mette di fronte a tragedie che, per un breve ma intenso momento caratterizzano la nostra vita. Per raccontarle un giornalista non può fare altro che far prevalere la deontologia, muovere domande scomode, cercare testimonianze che vogliano mettersi a servizio della comunità, cercare di indurre l’opinione pubblica a non dimenticare.
Nel corso della terza serata giornata del Festival Giornalisti del Mediterraneo, nella struggente cornice di Largo Porta Alfonsina, nel cuore ancora festante di una Otranto accarezzata dal vento di settembre, si è parlato di “Vedere e raccontare l’emergenza Covid-19: il ruolo del cronista”.
L’argomento principe di questa stagione delle nostre vite, guardato con l’apparente freddezza che permettono alcuni mesi di distanza temporale, ha mostrato inaspettate connessioni con la narrazione usata da NRW per raccontare le tragedie che colpiscono il Mediterraneo, gli orrori tutt’ora perpetrati lungo la rotta balcanica, i soprusi ancora vigenti tra le pieghe del sistema dell’accoglienza
«Fare luce sulle responsabilità e le negligenze commesse è un dovere morale di ogni cronista, ma anche una battaglia di civiltà per non commettere mai più gli stessi errori», ha spiegato Francesca Nava di The Post Internazionale, autrice de “Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale” (Laterza) in libreria il 17 settembre. Giornalista e scrittrice, ha ricordato il peso politico di aver scelto di non rendere Bergamo e la Valseriana una zona rossa, ma soprattutto l’importanza di incalzare la politica affinché non solo risponda, ma renda conto delle decisioni prese – soprattutto quando queste mettono a rischio vite umane, senza che a monte ci siano argomentazioni solide.
Che si tratti di navi lasciate alla deriva o di milioni di lavoratori obbligati ad andare al lavoro in piena pandemia, il filo rosso non è quello della tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia, come la definiva Philip Roth, ma la capacità di comprendere cosa raccontare e perché raccontarlo, ma soprattutto attraverso chi
Stefania Battistini di Rai Tg1 è stata l’autrice di un servizio fondamentale sul caso della riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo, dopo i primi contagi: un racconto che, ha spiegato durante il dibattito, non sarebbe stato possibile senza la volontà di un medico di raccontare quanto realmente avvenuto, «per amore di verità, o forse per la consapevolezza ex post del disastro avvenuto».
Ma perché parlare, perché raccontare? Paola Baruffi, di Sky Tg24, si è trovata a vivere sulla sua pelle, e su quella dei suoi familiari, un’emergenza sanitaria inizialmente sottostimata da tanti, ma non da chi, come lei, a inizio marzo si trovava a Bergamo: «Ad un certo punto ho deciso di prendere la telecamera e raccontare, perché sentivo che si trattava di un dovere morale».
Racconti coraggiosi, perché vissuti e rischiati in prima persona. Rivisti e riportati a distanza di mesi, portano con sé un rischio: la smemoratezza, la dimenticanza, l’ha definita Alessio Lasta, di Piazza Pulita (La7). «Degli italiani si dice siano un popolo che dimentica alla svelta, per questo c’è la necessità di riportare tutti alla realtà di quanto avvenuto una manciata di mesi fa. Stiamo cercando di riappropriarci della nostra normalità, ed è giusto così, però non a rischio di dimenticare quanto è successo». Un rischio che a NRW conosciamo bene perché sui temi migratori ogni volta, a causa della smemoratezza, si torna allo stesso punto.