Donald Trump fa piangere i bambini. Lo ha fatto per almeno un mese, da quando è entrato in vigore il nuovo giro di vite contro i migranti, soprattutto sudamericani, che entrano clandestinamente negli Stati Uniti. Cercare di entrare nel Paese senza documenti è considerato ora un reato. I genitori vanno in carcere in attesa di essere espulsi. I loro figli sono stati trattenuti in appositi centri fino a oggi, quando il presidente degli Stati Uniti ha fatto dietrofront annunciando che le famiglie di clandestini non sarebbero state più separate e i bambini non saranno più strappati ai loro genitori: «Vogliamo sicurezza per il nostro Paese ma allo stesso tempo abbiamo compassione, vogliamo tenere le famiglie unite».
A piegare The Donald l’effetto mediatico planetario del video con il pianto di una bambina di sei anni rinchiusa in una gabbia, che chiede all’inflessibile poliziotto di frontiera di poter parlare almeno con la zia. Da cattivo, Donald Trump in quel momento è diventato cattivissimo. Anche sua moglie Melania si è schierata contro di lui e a lei molti ascrivono il cambio di strategia presidenziale. Durissime le parole della First Lady: «Odio vedere bambini separati dalle loro famiglie». Ma la First Lady non ha detto solo questo. Si è anche augurata che «Gli schieramenti trovino una riforma migratoria di successo». Molti hanno inteso un auspicio a un confronto diretto tra Democratici e Repubblicani che su questo tema hanno i nervi scoperti. I due principali schieramenti però stanno al di qua e al di là del muro. Negli Stati Uniti, dove c’erano 2.000 bambini figli di migranti trattenuti al confine che piangevano. Ma pure in Messico, dove secondo Amnesty International i bambini rinchiusi nel 2016 negli Immigration Detention Centres erano 40 mila e 542. Venti volte più che negli Stati Uniti ma questo sembra non aver sconvolto nessuno.
Cattivissimo Trump quando dice che non vuole gli Stati Uniti «infestati» da migranti o che il Paese che guida «faccia la fine dell’Europa». Ovviamente ognuno di noi condivide il monito fatto al Presidente degli Stati Uniti da parte dell’Onu contro le politiche migratorie dell’amministrazione Trump. Ma attribuire tutte le colpe al 45° presidente degli Stati Uniti in tema di tolleranza zero sui migranti non solo è sbagliato ma non fa comprendere quello che avviene nel Paese Nord Americano.
Partiamo dal muro, la grande promessa elettorale di Donald Trump di ampliare il confine cementificato con il Messico. Al di là delle parole tuonanti, quella di The Donald è ancora una promessa. Ma il muro, all’inizio solo una barriera fatta di lamiera e di rete metallica, c’è già e quest’anno compie 28 anni. Il primo a volere una rigida barriera di confine fu nel 1990 il presidente repubblicano George H.W. Bush, Bush padre per capirci, quando diede corpo alla strategia “Prevenzione attraverso la Deterrenza”. Quattro anni dopo il suo successore, il democratico Bill Clinton sul quale torneremo più avanti, implementò i controlli al confine con una presenza fissa di forze di pulizia lungo il muro. Strategia confermata negli anni da George W. Bush, Bush figlio per intenderci, Barack Obama e da ultimo Donald Trump. Il muro, quello di cemento per intenderci, lungo 1.123 chilometri, è stato invece definitivamente approvato dal Senato il 26 settembre 2006 con 80 voti a favore e 19 contrari. Tra i favorevoli anche la senatrice democratica Hillary Diane Rodham Clinton, sconfitta alle presidenziali proprio da Donald Trump, e il senatore dell’Illinois Barack Hussein Obama, il predecessore di The Donald. Una volta diventato presidente, Barack Obama tra il 2008 e il 2016 ha quasi raddoppiato il numero dei Border Patrol Agents che sotto la sua amministrazione, secondo quanto calcolato da Amnesty International, sono passati da 15 mila a 23 mila e 861. Sempre sotto la sua amministrazione nel 2016 i migranti detenuti sono stati 352 mila e 882.
Certo sarebbe facile sostenere che gli Stati Uniti non sono un Paese per tutti. Negli ultimi due secoli vari presidenti, democratici e repubblicani senza troppe distinzioni, hanno firmato provvedimento per bloccare le migrazioni di massa. La rivista Internazionale ha fatto un elenco sommario che fa ancora rabbrividire. Nel 1882 venne vietato l’ingresso negli Usa ai cittadini cinesi, nel 1903 agli anarchici, nel 1907 ai giapponesi. Nel 1939 Franklin Delano Roosevelt chiuse i porti alla motonave Ms St.Louis carica di profughi ebrei sospettando che tra loro ci fossero spie naziste e molti di loro una volta tornati da dove erano venuti finirono nei lager. Negli anni Cinquanta toccò ai comunisti, negli anni Ottanta agli iraniani e nel 1987 ai malati di aids ammessi negli Stati Uniti solo nel 2010 su disposizione di Barack Obama.
Ma se si guarda davvero alle cifre si scopre che gli Stati Uniti sono tutt’altro che un Paese respingente. Dal 2006 è la prima nazione al mondo per numero di immigrati. Allora erano 37 milioni e mezzo. Nel 2013 sono diventati oltre 41 milioni, a fronte di una popolazione di un po’ più di 316 milioni. Senza contare gli 11 milioni di irregolari che pagano milioni di dollari ai migrant smuggling pur di entrare nel Paese.
Cifre che spaventerebbero chiunque. Soprattutto i cittadini americani. Ai quali i presidenti, tutti i presidenti, rispondono chiudendo le porte agli stranieri. Donald Trump ha promesso di volere mandare fuori dagli Stati Uniti tra i 2 e i 3 milioni di migranti clandestini. Se vorrà almeno eguagliare il suo predecessore dovrà darsi una mossa però. Secondo Niels W. Franzen, direttore dell’istituto di Immigration Clinic della University of North Carolina, tra il 2009 e il 2015 Barack Obama ha espulso 2 milioni e mezzo di migranti. Con un trend costante di 300-400 mila clandestini espulsi ogni anno che continua pure oggi.
Tra loro molti bambini. Molti in lacrime. Trattati non sempre come ci si aspetta.
L’immagine qua in cima lo dimostra. È la foto emblema della vicenda del piccolo Elián González, che aveva cinque anni il 25 novembre 1999, quando attraversa insieme alla madre su una zattera di balsa il tratto di mare tra Cuba e la Florida affondando poi al largo di Miami. Sua madre Elizabet Brotons annega. Alcuni parenti anticastristi fuggiti anni prima negli Stati Uniti si offrono di accogliere il piccolo Elián. Il padre del bambino, Juan Miguel Gonzalez, che è rimasto a Cuba dove da anni era separato dalla moglie annegata chiede di riavere il figlio del quale ha l’affido congiunto. Ne nasce una crisi diplomatica tra i due Paesi quasi come ai tempi dei missili a Cuba. Dopo un estenuante braccio di ferro, l’allora ministro della Giustizia Janet Reno, alla vigilia di Pasqua del 2000, decide che il bambino deve essere espulso e tornare dal padre a Cuba. Per rendere esecutivo l’ordine organizza un blitz agli agenti dell’Immigrazione che fanno irruzione in casa armi in pugno con elmetti e maschere antigas. Elián piange a dirotto davanti a quel mitra puntato ma non può opporsi e viene rispedito a Cuba, dove risiede ancora oggi. Alla Casa Bianca allora c’era il democratico Bill Clinton, un altro presidente che fa piangere i bambini.