Nessuno di loro vincerà mai una gara. Ma ci sbalordiranno ogni giorno senza nemmeno avere in cambio una medaglia.

(foto Ferraro/CONI)

Negli anni Venti a New York, durante il proibizionismo, uno dei locali più in voga in città era il Cotton Club sulla 125ma strada. Sul palco si esibivano orchestre molto famose di artisti afroamericani come quelle di Duke Ellington o Cab Calloway. In platea a ballare c’erano solo bianchi. Uomini in eleganti smoking, donne con i capelli alla paggetto e vestiti svolazzanti. I neri non erano ammessi, anche se quella era Harlem, il ghetto dei neri. Gli artisti afroamericani, per entrare nel locale, dovevano passare dalla porta di servizio. I bagni per loro erano quelli colored only, riservati ai neri.

Ci vorranno un bel po’ di anni, ancora un bel po’ di discriminazione e qualche vittima, prima che le cose cambiassero anche per gli artisti negli Stati Uniti. La vittima più famosa rimane la grande cantante Bessie Smith, osannata quando calcava le scene, lasciata morire in ospedale a Clarksdale nel Mississipi nel 1937 dopo un incidente stradale. Lei era una straordinaria cantante nera. Il Mississipi era uno stato del profondo Sud che faceva ancora i conti con i propri retaggi culturali di supremazia della razza bianca. E l’ospedale era solo per bianchi.
Sono passati ottant’anni e più da allora. Gli Stati Uniti hanno avuto un presidente afroamericano, in Europa nessuno dovrebbe fare più caso al colore della pelle. Ma certe antiche abitudini sono dure a morire. Il nero che fa spettacolo, che ci fa divertire, ci è sempre piaciuto. Così come la società bianca ha sempre apprezzato lo schiavo zio Tom che abita nella sua capanna senza troppo disturbare. Harriet Beecher Stowe nel 1852, quando ha scritto il libro, era spinta da un sincero principio abolizionista. Ma quando gli schiavi si ribellano, quando Bessie Smith scende dal palco e finisce in ospedale dove poi muore per incuria o quando l’altra grande cantante Billie Holiday, nel 1959, finisce ammanettata in ospedale per pochi grammi di droga quando è già in coma per cirrosi epatica e non si riprenderá mai rimanendo sempre piantonata dalla polizia fino alla morte, è solo allora che si capisce la considerazione che si ha dell’uomo o della donna neri di pelle, una volta lontani dai riflettori.
La vittoria di Raphaela Lukudu, Maria Benedicta Chigbolu, Libania Grenot e Ayomide Folorunso che ai Giochi del Mediterraneo di Terragona le ha portato sul podio più alto e in maglia azzurra ha fatto troppo discutere. Che siano di origini nigeriane, sudanesi o cubane deve rimanere solo un dettaglio biografico. Loro sono soprattutto italiane, senza se e senza ma. Anche se questo ha generato un bel po’ di confusione nella politica. Matteo Renzi le ha usate come un’arma impropria: «Vince il Paese che non ha paura». Matteo Salvini non si è scomposto: «Bravissime, mi piacerebbe incontrarle». Alla fine sembra quasi che la più sincera sia Giorgia Meloni: «I radical chic in questa vittoria ci hanno visto solo atlete di colore da strumentalizzare. Io vedo sventolare la bandiera tricolore. Evviva le nostre ragazze». Se la politica sbanda, i social sul web danno il peggio di sé. Un messaggio su tutti ci ha colpito: «Non è che adesso facciamo entrare tutta l’Africa in Italia per dominare le future olimpiadi?». E allora si torna al punto da dove siamo partiti. Il colore della pelle non ci disturba se ci fa vincere. Se, estremizzando, sono sempre loro a fare il lavoro più sporco e più faticoso per noi, pur di farci salire sul podio più alto. Pur di farci divertire. I goal di Mario Balotelli in Nazionale lo avevano fatto diventare SuperMario. Poi è successo che a Verona qualche anno fa lo hanno fischiato solo perché non era bianco. E a Brescia qualche settimana fa hanno messo pure uno striscione per strada contro di lui solo perché si era espresso a favore dei migranti.
Se la politica sbanda e i social ruttano, la realtà è molo più avanti. Certo desta scalpore solo a chi non si vuol arrendere agli stereotipi che Mbappé e altri sette calciatori che stanno facendo meraviglie per la Francia ai Mondiali sono di pelle scura e arrivano dalle banlieue. Ci commuove come quando leggevamo La capanna di zio Tom sapere che la loro rivincita parte proprio dalle periferie più desolate: «Qui non c’è altro, il calcio aiuta». Ma siamo più rassicurati dal sapere che fra nuovi italiani con la pelle scura ci sono medici, ingegneri, docenti universitari, operai, imprenditori, ricercatori, infermieri, tassisti. Nessuno di loro vincerà mai una gara. Non saliranno su un palco o sul podio più alto. Ma con la loro professionalità ci permetteranno di vivere meglio. Ci cureranno e ci insegneranno quello che non sappiamo. Disegneranno le città dove viviamo e immagineranno anche il nostro futuro. Sbalordendoci ogni giorno senza nemmeno avere in cambio una medaglia d’oro.

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