Per la sua quarta edizione, il Festival dei Diritti Umani si fa letteralmente in quattro, allargando il suo programma dalle consuete giornate alla Triennale Milano (2 – 4 maggio) a tre date aggiuntive a Bologna (7 maggio), Firenze (8 maggio) e Roma (11 maggio).
Sotto il cappello di un tema denso come “Guerre e pace”, il festival si fa portatore di pratiche benefiche e linguaggi non violenti attraverso film, documentari, talk, fotografie, testimonianze dirette: si parlerà di Siria e di tecnologie mortali applicate agli armamenti moderni, di diritti dei bambini e di cambiamenti climatici, di sostenibilità e di controllo sociale.
Un programma corposo, concreto. Bastano sette giorni e quattro puntate, per trasformare una narrazione che, di questi tempi, va in una direzione opposta?
Lo chiediamo al direttore del Festival Danilo De Biasio:
«Le “quattro tappe”, novità di quest’anno, sono prima di tutto il risultato della legittima aspirazione ad essere più grandi. Ma c’è di più. Abbiamo vissuto l’urgenza di incontrare un numero maggiore di persone che hanno bisogno di ragionare su temi così importanti. Perché sì, se esiste una polarizzazione — sovranisti contro internazionalisti, un derby, per dirla alla Salvini — aumentano anche le persone che non credono più alle fake news, alla storiella dell’invasione degli stranieri, al fatto che tutto sia sempre risolvibile facilmente. Cresce il numero di chi non solo non ci crede, ma rifiuta le risposte semplici, le spiegazioni comode ma che non raccontano nulla».
Guerre e pace all’apparenza, però, è una semplificazione. Nei fatti, cosa ci racconterete?
«I due estremi (guerre, al plurale, e pace, al singolare) si toccano. Alla base c’è un ragionamento molto semplice. Un anno fa abbiamo osservato le prime mosse del presidente Usa Trump, alla ricerca di un costante aumento delle tensioni in vari angoli del mondo. Li abbiamo osservati, abbiamo allargato il nostro sguardo, ci siamo resi conto che solo una minuscola parte dei conflitti del mondo riusciva a sfondare le porte di giornali e telegiornali per arrivare a noi occidentali, quando a ben guardare sono oggi in corso guerre in un quinto del globo. Sono gli aggettivi a definirle come conflitti, tensioni, ostilità: quello che avviene in Yemen è diverso da quanto accade tra India e Pakistan, e quanto avviene in Colombia può essere visto come fine di una guerra o momento di pausa. Ecco, queste complessità devono e possono trovare spazio».
Non si rischia l’autoreferenzialità? La popolazione italiana oggi sembra temere più la millantata invasione degli immigrati che la guerra in Colombia.
In quattro edizioni di festival, ci siamo resi conto che non è così. Tutti hanno ormai capito che le guerre ci sono entrate in casa. Che tensione e attentati non sono più temi distanti, da evitare.
«E allora bisogna anche affrontare un’altra evidenza: le tensioni che hai provato ad esportare, poi ritornano. Che quello che è successo in Nuova Zelanda rischia di essere la spiegazione di quello che è successo in Sri Lanka: questo accade con le guerre, nell’epoca della globalizzazione».
Diversi movimenti populisti e nazionalisti europei sarebbero d’accordo nel dire che sì, la globalizzazione ci sta portando in casa i terroristi. Fermiamoli, ti direbbero, fermando il movimento delle persone.
«È ovvio che se hai un quinto del mondo caratterizzato da conflitti in corso, il risultato sono i fenomeni migratori. Ma chi sono queste persone, se non disperati, come lo saremmo noi nel fuggire da situazioni non più gestibili?»
Possiamo contrastare l’invasione di queste fake news solo se insistiamo pervicacemente nello smontarle una per una. Per questo al festival non invitiamo (solo) il professore che spiega la teoria, ma contiamo soprattutto sulle testimonianze.
«Sul volontario, sul giornalista, su chi ha vissuto sulla propria pelle come si vive in certi luoghi e cosa sta accadendo lontano dai nostri occhi.Abbiamo spesso ospiti scuole e studenti: certo non riusciremo a convincere tutti e 30 gli studenti di ciascuna classe che viene a vedere il festival. Ma se ne convinciamo anche solo alcuni, se diamo loro lo spazio e gli strumenti per domandarsi il perché di tante bugie e tante narrazioni faziose, il risultato c’è».
L’Italia non è un Paese per giovani, ma sono loro che ci salveranno dalle fake news e dal razzismo?
«Ricordo quando, durante il primo anno di festival, è venuta a parlare Nadia Murad, la giovanissima yazida sfuggita all’Isis che poi vinse il Nobel. Era una testimonianza difficile. Dopo quanto subito, lei era gelida, leggeva un testo in arabo, non guardava la platea. Dal punto di vista comunicativo, un fiasco, se pensi che parlava a dei ragazzi. Invece alla fine dell’incontro un gruppo di ragazzine ha fatto di tutto per avvicinarla, per parlare con lei, per cercare il contatto umano: ragazze arabe di seconda generazione o italiane da generazioni, hanno dimostrato che puoi chiamarti Farid o Giuseppe, ma ai ragazzi non importa. Si riconoscono naturalmente, parlano la stessa lingua».
Il programma è molto denso e ricco di nomi forti, ma quali sono gli appuntamenti che ci suggerisci di segnare in agenda?
«Personalmente sono molto incuriosito dal dialogo tra Khaled Khalifa, scrittore siriano che ha appena pubblicato il suo ultimo romanzo, e Lucia Goracci, invita della Rai, che si terrà il 2 maggio alla Triennale di Milano. Khaled Khalifa è siriano, ma non racconta mai la guerra. Piuttosto ci descrive come la guerra entri nelle famiglie, nella vita di tutti i giorni: per questo i suoi libri sono così toccanti. Lucia Goracci racconta a noi con grande tatto quello che sta accadendo nel corso del conflitto siriano, l’incontro tra i due sarà sicuramente imperdibile».
Un secondo appuntamento imperdibile?
«Il tema rapporto tra tecnologia e guerra: abbiamo dedicato al tema due panel, uno tra Maria Chiara Carrozza, responsabile di robotica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa insieme a Regina Surber, dello Zurich Hub for Ethics and Technology, centro di ricerca che si occupa di tecnologia della pace: proviamo a smontare l’assioma per il quale uno stato debba spendere tanti soldi per la guerra, invece che per la pace».
Il clou sarà l’11 maggio a Roma quando interverrà Noel Sharkey, guru della robotica oltre che primo di una lunga lista di scienziati che ha caldeggiato lo stop della ricerca sui killer-robot. Intelligenze artificiali spacciate dall’industria bellica come soluzione del problema.
«Ci dicono che eviteranno di colpire i civili, ma la storia ci ha già insegnato che quando una macchina o una tecnologia è così potente da non essere controllabile dall’uomo, si crea solo uno scenario aberrante e pericoloso, quanto il dilemma atomico. Senza citare la sorveglianza digitale, che in questo fenomeno ha un peso non da poco: in Cina un milione e mezzo di ugiri sono controllati e arrestati tramite il riconoscimento facciale di massa. In Italia se ne parla poco, ma tutto questo sta già avvenendo, non possiamo negarlo. Ma dobbiamo informarci».