Il 4 agosto il Medio Oriente ha tremato. Beirut, cuore pulsante del Libano, è stata sfigurata. Il suo porto, da cui passa l’80% delle importazioni, polverizzato. E ora si riaccende la rabbia dei libanesi che sfidano il governo al grido di “Thawra”, rivoluzione. Ne scrive Margherita De Gasperis del team di NRW. A Beirut ha vissuto, studiato, e lavorato per un’organizzazione umanitaria.
I colori, i rumori, i profumi, della mia Beirut. Tutto spazzato via dall’esplosione che il 4 agosto ha scosso la terra fino a Cipro, demolendo non solo il cuore della capitale libanese, ma anche l’animo del suo popolo. Tramortita, Beirut piange i suoi morti, ad oggi 157 e cinquemila feriti. Diverse le ipotesi su quello che fin da subito è stato definito un incidente. Forse un coinvolgimento di Israele, forse terrorismo interno, in vista del verdetto finale del processo sull’uccisione dell’ex presidente Rafic Hariri, morto in un attentato nel 2005, in cui sono imputati quattro esponenti di Hezbollah. Oppure, e sembra essere l’ipotesi più accreditata fino a ora, solo una folle insipienza politica, visto che le tremila tonnellate di nitrato di ammonio erano stoccate in un deposito, al porto da sei anni.
Il calore, l’accoglienza, la vitalità, della mia Beirut. E ora, dilaniata dall’esplosione, davanti al rischio di una nuova crisi umanitaria. «Siamo la prossima Siria, i vostri prossimi rifugiati», sostiene Layla, una delle prime tra i miei amici che sono riuscita a contattare. «Aiutateci ad evitare il collasso di un paese chiave per gli equilibri del Medio Oriente». Un Paese che, con i suoi 6 milioni di abitanti, accoglie circa 2 milioni di rifugiati, non deve essere lasciato solo.
Lo sa bene chi, come me, ha chiamato Beirut casa per lungo tempo, chi quel 4 agosto l’ha vissuto così come si riceve la notizia di un parente amato che non c’è più, proprio nel momento in cui si è lontani e senza la possibilità di tornare a riabbracciarlo. Sono state ore di chiamate isteriche agli amici di sempre, quelli con cui ho condiviso uno dei periodi più belli della mia vita. Quelli di serate calde e pigre, di feste fino all’alba e di partite di calcio guardate nei pub di Hamra.
Il mio amico Mohammad racconta di scene apocalittiche, ‘corpi e feriti ovunque, aria densa di polvere e chissà che altro. La Beirut che ricordi tu oggi non esiste più’, mi ha scritto poche ore dopo l’esplosione.
Le voci che parlano mille lingue, i bar, gli shisha nelle strade, della mia Beirut. Ora, solo una coltre di fuliggine, calcinacci e macerie sotto cui scavare disperatamente. Era il gioiello del Medio Oriente, un’utopia avveratasi di società multiculturale, l’occasione per studenti di ogni nazionalità di sperimentare la commistione culturale tipica libanese, e ora tutto questo rischia di sparire. I cancelli della AUB (American University of Beirut), simbolo di una gioventù cosmopolita e di successo, sono chiusi ormai da mesi e la loro riapertura oggi sembra più lontana che mai. La Corniche, il lungomare che segue il profilo della città, dove andavo a correre tutti i giorni, sembra un campo di battaglia.
Mar Mikhael, il quartiere della movida, è andato distrutto. E con lui qualcosa è andato distrutto anche dentro di noi, che con Beirut abbiamo sviluppato un rapporto quasi morboso.
Crisi è la parola chiave del Libano nel 2020
Da mesi mi chiedevo cos’altro potesse succedere a questo Paese, intrappolato in un vortice autodistruttivo che ha colpito ogni aspetto della quotidianità, e se ci fosse anche solo un modo per uscirne. La crisi economica, con il default dichiarato lo scorso marzo, la crisi istituzionale, con una classe politica corrotta che si rifiuta di farsi da parte. La crisi energetica che ormai lascia le case e le strade al buio per oltre 12 ore al giorno. E ancora la crisi sanitaria, con gli ospedali travolti dalla pandemia di Covid-19. Difficile immaginare le conseguenze di questa terrificante esplosione in un Paese già in piena emorragia.
Le proteste e la rabbia
E insieme al dolore adesso monta la rabbia. Fin dallo scorso autunno il Paese dei Cedri è stato travolto da proteste di piazza. I libanesi sono stufi della negligenza della classe politica, vogliono un cambiamento reale nella struttura governativa del Paese, cambiamento disatteso dalla formazione dell’ultimo governo.
Qualunque siano le cause, un quantitativo simile di esplosivo non doveva trovarsi nel cuore di Beirut e il governo lo sa. Nella notte tra il 6 e il 7 agosto si sono riaccese le proteste, con scontri tra manifestanti e polizia, ma questo è solo l’inizio di un’ondata di rabbia, ancora più radicata, ancora più inarrestabile.
‘Sono intrappolata in un Paese allo sbando. I visti per l’area Schengen sono sospesi, non posso accedere ai miei risparmi, e la mia ong non riesce a sbloccare i fondi ricevuti. Ora che abbiamo seppellito, ancora una volta, i nostri morti, vogliamo seppellire questa classe politica’, mi scrive la mia ex datrice di lavoro Miriam, direttrice di una nota ong libanese.
La resilienza, l’intelligenza, la solidarietà della mia Beirut. Già dalle prime ore le strade si sono riempite di volontari che incessantemente ripuliscono, aggiustano la città, cercando di ricucire i lembi di ferite materiali e dell’anima. Molti hanno messo a disposizione le proprie abitazioni per ospitare chi ha subito danni alla propria casa. Non sono qui a scrivere un necrologio: Beirut è stata ricostruita innumerevoli volte e lo sarà ancora una volta.
Noura, una mia cara amica libanese, trova la forza di raccontare: «Mi sono crollati i muri intorno, e qualcosa in quel momento è crollato anche dentro di me. Ma non è finita qui, non finisce mai qui per il Libano». Ma sta anche a noi non lasciarli soli.
Beirut, habibi, non mollare.
Bellissimo articolo.Quanta tristezza..
Grazie anonimo :_))