Quando il porto di Beirut è esploso Karim Kassem, giovane regista di origine libanese che vive negli Stati Uniti, era tornato nel suo Paese di origine da meno di 24 ore. Era nella sua stanza al Phoenicia hotel di Beirut, albergo storico che negli anni ha ospitato politici e uomini d’affari. Ricorda solo che era seduto alla sua scrivania a rivedere alcune riprese, poi nel giro di qualche istante si è trovato scaraventato nei pressi della hall, miracolosamente illeso. Lo stesso non si può dire dell’edificio, che si affaccia proprio su quel lungomare oggi martoriato. «Chiudiamo per almeno quattro mesi, proprio nel momento in cui cominciavano a tornare un po’ di turisti. E le riparazioni dovremo pagarle noi», spiega Mirna Salha, figlia del proprietario della struttura.
Storie come questa si ripetono in ogni angolo di una città diventata irriconoscibile. Gli edifici dei quartieri più colpiti, come il Downtown e Karantina ma anche Mar Mikhael e Gemmayze, un tempo fulcro della movida cittadina, sono ridotti a una macabra sfilata di scheletri. I tradizionali edifici color pastello che si susseguivano in una delle strade più belle e caratteristiche della città mostrano, sventrati, il loro interno.
Nelle strade prima trafficate e affollatissime di giovani, di bar, di voci e risate, teatro di cene e bevute tra amici, ora è calato il silenzio. Si cammina tra un palazzo franato e un negozio spazzato via dall’urto dell’esplosione, e ciò che rimane nelle orecchie è il rumore sordo, incessante dei martelli. Colpi secchi che, a dirla tutta, sembrano riecheggiare un po’ ovunque nella città, divenuta un unico grande cantiere.
Una fitta rete di solidarietà.
La città è stata sventrata nella sua parte più affascinante, eppure quel che si respira nelle strade non è un sentimento di rinuncia, abbandono. Beirut è oggi più di prima in fermento: ong nazionali e internazionali, associazioni governative e religiose affollano le aree più colpite, in una sorta di gara a chi aiuta di più, e più rapidamente. Nel giro di un mese ha preso forma una fitta rete di solidarietà, una realtà consolidata in Libano ma che nelle emergenze si attiva su ogni fronte. I tetti sono ricoperti dalle impalcature e in fase di ricostruzione, le finestre vengono sostituite, i muri tirati su nel giro di pochi giorni. Nulla sembra fermare i libanesi. Neanche le continue disgrazie e il susseguirsi di incidenti, o almeno così vengono definiti dalle autorità libanesi, che mettono in ginocchio una popolazione ormai ridotta in povertà ed esasperata dall’incompetenza di una classe politica irrimediabilmente corrotta.
Quando, a un mese esatto dall’esplosione, un’enorme colonna di fumo nero si è nuovamente alzata dal porto, nelle strade si è creato il panico. Chi ancora ha una casa ci si è rifugiato, ben lontano dalle finestre, chi poteva si è allontanato dalla città
Certi traumi non si dimenticano facilmente, eppure nel giro di 24 ore Beirut è tornata all’opera, come se niente fosse. Proprio nel giorno successivo all’incendio – il primo di una serie di fuochi che ormai quotidianamente scoppiano un po’ ovunque nella città – NRW ha seguito il lavoro dell’organizzazione umanitaria Al Chafaka, da anni punto di riferimento per i libanesi in difficoltà, e ora impegnata nella consegna di medicinali, cibo, beni di prima necessità ed elettrodomestici. Miryam Elkhoury Shafaa, nipote della fondatrice Laudy Geara Khoury, ci ha portato nelle case dei libanesi, ci ha lasciato ascoltare le storie di chi è sopravvissuto e di chi invece ha perso tutto: i propri cari, una casa tirata su in anni di sacrifici.
Racconti dalle macerie.
Emile vive da decenni a Karantina, uno dei quartieri più poveri travolti dalla detonazione. Ci apre una porta appena riverniciata di azzurro brillante. Quella vecchia è stata spazzata via, così come le finestre e parte del tetto. Ha 87 anni ed è sopravvissuto a più di una guerra, alla fame degli ultimi mesi, al Covid-19 e ora anche all’esplosione. Ci racconta fissandoci con due profondi occhi grigi che, nonostante tutto, sembrano sempre sull’orlo di una risata:
Quel giorno ero ai fornelli, appena ho sentito la prima esplosione mi sono buttato per terra. Se non lo avessi fatto non sarei qui a raccontarlo, una trave del soffitto è collassata ed è caduta esattamente dove mi trovavo io qualche secondo prima. Vedi, a qualcosa la guerra serve, ti allena alla sopravvivenza
Viene da scuotere la testa. Eppure i libanesi sono fatti così. Sebbene arrabbiati, sfiniti, avviliti, ti lanciano addosso certi racconti drammatici come se fossero robe da nulla. Charbel ci porta sul tetto del suo palazzo, che affaccia proprio sul porto. Ci mostra il punto in cui si trovava il 4 agosto. Involontariamente ha ripreso tutto con il suo telefono. Quel che non si vede nel video lo raccontano le pareti interne del palazzo, dove ancora tra i calcinacci compaiono tracce di sangue. Lui è riuscito ad infilarsi in una fessura tra le macerie e a raggiungere la sua famiglia al piano inferiore. Loro sono gli unici superstiti tra gli inquilini di quel palazzo.
La giornata scorre febbrilmente, schizziamo da una parte all’altra a consegnare elettrodomestici, le storie si rincorrono e si accavallano fino a diventare un unico racconto
Shoushig dorme da un mese in cortile perché ha paura di rimanere nuovamente schiacciata sotto alle macerie, Mohammed osserva la squadra dei volontari di Impact Lebanon che lo sta aiutando a rimettere in piedi il suo negozio. Rim porta il caffè ai ragazzi dell’agenzia governativa statunitense USAID che ripuliscono le strade dai calcinacci.
Una città in fermento.
Nel Basecamp installato a Mar Mikhael e nella Nation Station a Geitawi si raccolgono le donazioni, le richieste di aiuto e si pianificano le attività. Dal 4 agosto ad oggi sono stati coinvolti oltre 1500 volontari. Medici senza frontiere accoglie sotto ai suoi tendoni chi ha bisogno di medicinali e cure. Nessuno viene lasciato indietro, neanche i gatti e i cani di Beirut. Abbiamo intervistato Summer, una delle volontarie di Animals Lebanon, e responsabile del rifugio situato ad Hamra: «Grazie al nostro team di ricerca e salvataggio siamo riusciti a ricongiungere quasi tutti gli animali domestici che erano andati smarriti con l’esplosione. Ma abbiamo soccorso anche molti randagi rimasti feriti o intrappolati nelle macerie, una volta guariti andranno in adozione».
Più della distruzione, colpisce la frenesia della ricostruzione. In quella che sembra una corsa contro il tempo, libanesi e non cercano di sopperire alla mancanza di supporto da parte dello Stato per rimettere in piedi una città che sembra sbriciolarsi in ogni angolo.
È difficile ormai distinguere cosa abbia distrutto l’esplosione, cosa abbiano invece danneggiato gli atti vandalici legati alle proteste di piazza che hanno scosso il Paese nell’ultimo anno. Cosa invece era in ricostruzione fin da prima, strascico di guerre che avevano, solo pochi anni fa, lasciato la città demolita. Nuove profonde ferite si aggiungono a cicatrici ancora fresche, su un corpo ormai da anni martoriato.
Beirut oggi è un unico enorme cantiere, una città che non si ferma nonostante ormai quotidianamente qualcosa si avvii al tracollo, nonostante si accendano incendi un po’ ovunque. Beirut ancora una volta è una città che non vuole arrendersi.
Foto: Margherita De Gasperis