All’origine del razzismo c’è l’idea che una razza sia meglio dell’altra. Ma se le razze non ci fossero? E l’unica razza da prendere in considerazione fosse quella umana? Il professor Guido Barbujani, docente di Genetica all’Università di Ferrara, su questi temi lavora da anni. È autore di L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, pubblicato da Bompiani nel 2006.

Professor Barbujani, noi siamo bianchi, loro sono neri. Basta il colore della pelle a fare la differenza?

Se si va in cerca di guai, basta qualunque differenza, reale o immaginaria, a fare la differenza. Fra serbi e croati, hutu e tutsi, o castigliani e catalani, tanto per fare tre esempi che si spiegano da soli, le differenze biologiche sono infinitesimali, eppure il conflitto fra questi gruppi dura e ha prodotto sofferenze. Il fatto che, biologicamente, ognuno di noi sia diverso da tutti gli altri (a meno che non abbia un gemello identico) non significa che facciamo parte di razze differenti. Perché in una specie ci siano le razze, bisogna non solo che le differenze ci siano, ma che i suoi membri formino gruppi biologici distinti: e nell’uomo non è così. A seconda dei criteri usati – colore della pelle, tipo di capelli, forma del cranio, o varianti del DNA – la stessa persona finisce in razze diverse in compagnie diverse, per cui nessuno sa dire quante e quali siano le razze nell’uomo. Dopo due secoli di tentativi inutili di produrre il catalogo delle razze umane, antropologi e genetisti hanno capito che non aveva senso e hanno smesso.

Da dove veniamo? Se l’umanità ha origine in Africa, vuol dire che siamo tutti parenti e tutti un po’ africani?

Sì.

Perché poi sono subentrate differenze genetiche? Alcune visibili: biondi o ricci, occhi azzurri o neri, alti o bassi…

Le differenze ci sono sempre, in tutte le specie, e c’erano anche in Africa, 60 mila anni fa, prima che decidessimo di migrare in Asia e in Europa. Anche le giraffe, le salamandre e i ciclamini sono tutti diversi fra loro. È la conseguenza di un fenomeno naturale che si chiama mutazione. Piccoli errori nella copiatura del DNA che, a un certo punto, hanno effetti importanti: bloccano la produzione di pigmento e producono pelli chiare in popolazioni che prima ce le avevano scure; oppure impediscono la disattivazione di un gene che nel neonato permette di digerire il latte, e quindi danno a chi le eredita la capacità di mangiare prodotti caseari senza avere mal di pancia.

Il biologo e genetista statunitense Richard Lewontin, già nel 1972 sosteneva che l’85% della variabilità genetica umana sta all’interno delle popolazioni. Ce lo può spiegare in maniera semplice?

Lewontin non lo sapeva, ma oggi è dimostrato che il nostro DNA è identico al 99,9% a quello di qualunque sconosciuto. Se ci concentriamo su quell’1 per mille di differenze, i dati di Lewontin vogliono dire che, ponendo pari a 100 la differenza fra due persone di due continenti diversi, in media la differenza fra due europei, o due asiatici, o due africani, sarà 85, cioè di poco inferiore. È proprio perché le differenze fra popolazioni umane rappresentano una piccola frazione del totale, il 15% di un 1 per mille (anzi, secondo gli studi più recenti, un po’ meno), che non si riescono a definire, nella nostra specie, razze biologiche.

Le differenze cromatiche sottintendono anche altre differenze più sensibili che influiscono sul carattere o sul modo di agire o c’entrano altri fattori?

Questa è una domanda complicata, a cui l’unica risposta seria, al momento, è: dipende. Il colore della pelle ha una base genetica ma, come tutti sanno, stando al sole ci si abbronza. È così per molte altre nostre caratteristiche. Solo poche, per esempio la capacità del sangue di coagulare, dipendono al 100% dai geni; tantissime altre, fra cui il colore della pelle, un po’ dai geni e un po’ dall’ambiente: dalla tendenza a sviluppare il cancro alle nostre facoltà cognitive, è chiaro che contano sia i geni che mamma e papà ci hanno trasmesso, sia fattori ambientali (lo stile di vita e il fumo per il cancro; l’ambiente famigliare e i livelli di istruzione per le facoltà cognitive). Il problema è che tutti questi geni non sono correlati fra loro, e quindi guardando la pelle di una persona sappiamo poco o niente di come siano gli altri 20 mila geni di quella persona. Come scrive nel suo blog Adam Rutherford, un ottimo genetista inglese, «la genetica è complicata e se qualcuno vi dice il contrario, sta cercando di vendervi qualcosa».

Lei scrive nel suo libro: «Si usa disinvoltamente il termine razza quando sarebbe più appropriato il termine popolazione». Le razze alla fine non esistono?

Razza è una parola uscita dal vocabolario dei genetisti, perché rappresenta la lente deformante attraverso cui generazioni di scienziati hanno cercato, fallendo, di descrivere le differenze fra esseri umani. Da quando la si è abbandonata e ci si è concentrati sulle differenze fra individui, abbiamo capito un sacco di cose, sulla nostra storia evolutiva, sul perché ci ammaliamo, e su come curare le malattie. Oggi abbiamo un quadro enormemente più dettagliato di come piccole differenze nel DNA stiano alla base delle nostre diverse stature, girovita, colore degli occhi, gruppo sanguigno o capacità di rispondere al trattamento coi farmaci. Razza è però una parola ancora usata da molti medici americani (oltre che da politici di tutti i Paesi). Per i primi, si tratta del permanere di uno stereotipo ottocentesco, in una società effettivamente divisa da barriere fra chi è classificato come nero e chi è classificato come bianco: anche se questa classificazione ha poco a che vedere con il colore della pelle e molto con la struttura sociale emersa dallo schiavismo. Mariah Carey è considerata nera, anche se ha la pelle chiara quanto la mia; Barack Obama è considerato nero, anche se è figlio di un’americana di origine europea, e quindi dovrebbe stare esattamente nel mezzo.

Geneticamente parlando, tra me e lei e Barack Obama o l’imperatrice del Giappone ci sono più cose che ci uniscono o che ci dividono?

L’abbiamo appena detto: abbiamo tutti in comune il 99,9% del DNA delle nostre cellule.

Da scienziato non le fa un po’ paura che si torni a parlare di queste cose in termini divisivi, noi e loro, bianchi e neri?

Mi fa paura sì, ma da cittadino, non da scienziato, perché in ogni società attraversata da confini fra identità diverse possono esplodere conflitti e la convivenza è difficile.

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