Nelle scorse settimane, su Radici sono stati evidenziati alcuni profili problematici, in punto di diritto, del cosiddetto decreto sicurezza. In sede di emanazione del decreto-legge, già il Presidente della Repubblica aveva reputato di richiamare l’attenzione del Presidente del Consiglio sul fatto che «restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Poi anche l’UNHCR aveva espresso «preoccupazione per alcune norme del Decreto Legge che appaiono in potenziale contrasto con la normativa internazionale sui rifugiati e sui diritti umani, rischiando di indebolire il livello generale di tutela con particolare riferimento alle persone vulnerabili e con esigenze specifiche». In questi giorni, il testo di legge è stato oggetto di ulteriori rilievi critici da parte di fonti autorevoli. Lo scorso 15 novembre Dunja Mijatović, commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, ha affermato che il decreto sicurezza «solleva diverse preoccupazioni dal punto di vista dei diritti umani di migranti e richiedenti asilo». In particolare, il commissario esprime perplessità tra le altre cose, sulla esclusione dei richiedenti asilo dal Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), sull’assenza di «alternative alla detenzione», sulla mancanza di «garanzie adeguate contro privazioni della libertà non necessarie e di lunga durata», sulla scarsa chiarezza normativa circa il fatto che «i minori con o senza famiglia non possano essere detenuti».
Da ultimo, sul decreto si è espresso il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), che il 21 novembre ha approvato a larga maggioranza un parere molto critico, redatto dalla Sesta Commissione, indirizzato al ministero della Giustizia. Il documento, ampio e articolato, formula diversi rilievi su una serie di profili. Tra questi compare, ad esempio, l’abrogazione della protezione per motivi umanitari. Può essere utile ricordare che prima del decreto sicurezza la normativa nazionale prevedeva il rilascio di un «permesso di soggiorno per motivi umanitari» quando ricorressero «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», dopo l’accertamento di «oggettive e gravi situazioni personali»; tale permesso poteva essere rilasciato anche quando una domanda di protezione internazionale non potesse essere accolta (per mancanza dei presupposti richiesti) e, tuttavia, sussistessero «gravi motivi di carattere umanitario» per cui concedere comunque la protezione. Questa disciplina – afferma il CSM – «ha svolto efficacemente, fino ad ora, un ruolo di reale “contenimento” delle ipotesi di tutela dello straniero vulnerabile». Il decreto sicurezza ha eliminato tale forma di protezione, tipizzando alcuni casi speciali di permesso di soggiorno temporaneo per esigenze di carattere umanitario (per cure mediche, per vittime di violenza o di grave sfruttamento, per situazioni di contingente ed eccezionale calamità ecc.), con differenti durate. Secondo il CSM, «la tipizzazione legislativa delle ipotesi di protezione realizzata con il decreto-legge in esame, in astratto pienamente legittima (…) è però certamente non esaustiva, essendo ipotizzabili mutevoli e varie situazioni di vulnerabilità». Ne consegue che diritti costituzionalmente garantiti anche allo straniero, ma ora esclusi dalle ipotesi tassativamente previste dalle nuove norme per il rilascio dei permessi speciali, verranno comunque fatti valere dallo straniero stesso dinanzi al giudice. Sarà, quindi, compito di quest’ultimo definire la situazione inerente al primo, ma senza la mediazione delle disposizioni di legge che sono state abrogate, e ciò creerà una condizione di incertezza che potrebbe generare «un possibile incremento del contenzioso ed un ritardo nella tutela dei diritti fondamentali degli stranieri vulnerabili».
Il CSM esamina, inoltre, la disposizione che prevede un elenco di «Paesi di origine sicuri» – adottato con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia – «nell’ottica di semplificare la definizione delle domande di protezione per il caso in cui il richiedente provenga per l’appunto da uno dei Paesi inclusi nella lista». Secondo il decreto Salvini, uno Stato non appartenente all’Unione europea verrà considerato Paese sicuro se, «sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione (…) né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». Al riguardo, il parere afferma che, sebbene la norma di nuova introduzione «sia in linea con quella europea», la lista non potrà considerarsi vincolante in quanto contenuta in un atto amministrativo interministeriale. Pertanto, deve reputarsi che resti fermo «il potere dell’autorità giurisdizionale ordinaria di riconsiderare l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri mediante congrua motivazione, tanto più ove la predetta indicazione si discosti dai criteri di inserimento pure previsti dalla norma generale». A questo proposito, sembra opportuno richiamare anche quanto rilevato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. L’ASGI afferma che «chi stabilisce che il Paese di origine sia “sicuro” sarà di fatto la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, che non è organo amministrativo indipendente ed è fortemente connesso per composizione e struttura organizzativa al potere politico». In altri termini, la Commissione potrebbe operare scelte non pienamente oggettive, come invece sarebbe richiesto. Il CSM formula anche altri rilievi nel citato parere, ma quelli fin qui esposti costituiscono un esempio del tenore delle critiche svolte.
I termini per la conversione del decreto scadranno il prossimo 3 dicembre. E se gli alleati di governo sembrano aver raggiunto un accordo sul piano politico, su quello giuridico i dubbi aumentano. Su Radici ne stiamo dando conto, e proseguiremo anche quando le norme cominceranno a produrre gli impatti annunciati.