È il 6 febbraio. Sul palco dell’Ariston, la regina della tv albanese Alketa Vejsiu vede esaudirsi la sua più grande ambizione: condurre il Festival di Sanremo. Ci racconta di un’Italia che accoglie e che è ancora in grado di attrarre, ci parla della sua vita, ci ricorda di quando ascoltare Albano e la Carrà era uno dei pochi mezzi per sfuggire alla censura comunista in Albania.

Saltiamo direttamente al 29 marzo. È passato poco più di un mese dalle serate dedicate alla musica italiana e alla vicenda Bugo, ma pare trascorsa una vita. Il premier albanese Edi Rama annuncia l’arrivo di 30 medici e infermieri albanesi in suolo italiano, in aiuto contro la pandemia da Covid-19. Il video in cui rende pubblica la sua decisione è un discorso breve, ma d’impatto fulminante. Rama parla in termini bellici, della fedeltà albanese che – al di là della relativa disponibilità economica – «non abbandona l’amico in difficoltà», evocando la memoria di un popolo che «ci ha salvato, ospitato e adottato in casa loro». Immagini del genere non lasciano indifferenti.

Se da un lato a prevalere è il senso di gratitudine e di compiacimento del “bene che torna indietro”, dall’altro lato sorge un dubbio: questa fratellanza italoalbanese – all’improvviso universalmente celebrata – è effettivamente tale nei fatti?

Dalla Tuscia a Sanremo

Cris Skenderi, 28 anni, italoalbanese dal cognome turco, oggi fa l’architetto a Rotterdam. È stato traghettato in Italia dalla madre ancora incinta, ed è nato pochi mesi dopo l’arrivo ad Acquapendente, nella bassa Tuscia. «Ho passato un’infanzia serena, immerso in un connubio culturale unico, tra l’anziano aquesiano che ci studiava con curiosità e mio padre, sempre vissuto in città, che per la prima volta in vita sua vedeva una gallina e si ritrovava a coltivare un orto, tra l’incredulità degli amici rimasti a Tirana» racconta Skenderi. Essere tra i pochissimi stranieri in quel contesto e in anni in cui la migrazione di massa era un fenomeno ancora lontano ha sicuramente avuto un ruolo: «C’è stato un problema identitario che mi porto dentro da sempre, sin dalle scuole medie. La diffidenza che inevitabilmente accompagna il mio cognome. Una diffidenza probabilmente culturale, che dimostra come– allora come adesso – il concetto di “italianità autentica” ha ancora un valore, al di là del tuo trascorso» premette. «Arriva sempre la domanda: ma di dove sei “per davvero”. Sembra scontato, ma sono specificazioni che rischiano di distaccarti da entrambe le tue origini». Nonostante ciò, «i miei genitori sono legatissimi all’Italia e alla Puglia, per come sono stati trattati appena arrivati. Io non ho nemmeno mai imparato la grammatica albanese».

Quando due anni fa Ermal Meta ha vinto Sanremo senza che nessuno polemizzasse “sull’aver fatto vincere un albanese”, mi sono reso conto che eravamo definitivamente parte del tessuto sociale italiano.

Non è poi così distante la storia di Kevin Dobra, che ha 23 anni ed è originario Ovada (Al): «Per anni, siamo tornati ogni estate in Albania ma ormai sono 5 anni che non ci andiamo più, e francamente non vedo motivo per cui dovremmo tornarci nel prossimo futuro» riflette. «Culturalmente la mia famiglia non si è mai legata alla comunità albanese italiana, anche perché entrambi i miei genitori hanno passato più anni della loro vita in Italia che in Albania». Ma qualche differenza c’è stata: Kevin si è trovato, pur essendo nato in Italia, ad acquisire la cittadinanza solo nel 2010: di fatto ha passato più giorni della sua vita come albanese che come italiano. «Ricordo chiaramente le file alle 7 del mattino nella questura di Alessandria per i documenti. Stando ammassato con gli altri extracomunitari, per una mezza giornata smettevo di sentirmi italiano e il cognome tornava ad essere un ostacolo insormontabile». Un rapporto altalenante con la sua nazione di origine, che ha portato Kevin a voler conoscere in maniera più approfondita le terre a cui deve il cognome: oggi studia a Graz, in Austria, in uno dei pochi Master in Studi del Sud-est Europeo, e non nasconde tutto il suo scetticismo verso il presidente Rama: «Non capisco perché abbia questa immagine immacolata, all’esterno dei confini albanesi.
Si è riuscito a vendere in maniera incredibile, sebbene per tendenze autoritarie e concezione della democrazia, sia assimilabile al presidente turco Erdoğan o a quello serbo Vučić. Eppure è riuscito a ritagliarsi un ruolo liberale e ad ammaliare l’opinione pubblica e le cancellerie occidentali».

Un successo annunciato

Sono storie come quelle di Cris e Kevin a sancire un successo innegabile. Ma non bisogna dimenticare problematiche e difficoltà ancora in atto, spiega il ricercatore e scrittore Nicola Pedrazzi, esperto di Balcani: «Negli ultimi anni da più fronti si è smesso di avere un approccio critico verso il fenomeno albanese, lasciando maggior spazio ad una narrazione politica e romantica. Questo perché la retorica della fratellanza italoalbanese risulta funzionale sia alla sinistra sia alla destra: a sinistra si sfrutta il caso albanese a riprova del fatto che l’integrazione sia possibile, a destra come esempio calzante del fatto che gli italiani non siano razzisti, e che (se vuoi) ti puoi integrare».

«Questi messaggi politici si rifiutano di analizzare criticamente i problemi che la comunità albanese può avere ed ha in Italia» riflette Pedrazzi. «Senza voler negare l’evidente successo dell’immigrazione albanese in Italia, è necessario rimanere concentrati sulle varie sfumature che essa ha assunto, e che tuttora sta vivendo». Un esempio, spiega, è il fenomeno dei minori albanesi non accompagnati che oggi non arrivano più grazie a fatiscenti barconi ma grazie voli diretti: «Vengono lasciati in Italia nella speranza di un futuro migliore. Eppure, casi di questo tipo non entrano nella narrazione mediatica, ammaliata dalla sola retorica della comunità perfettamente integrata. Il risultato è che certe criticità passano in sordina, senza venire affrontate come meriterebbero».