Il 23 novembre 2013 è stato un giorno come tanti negli Stati Uniti. Il giornalista inglese del Guardian Gary Younge lo ha scelto a caso per raccontare le morti violente a colpi d’arma da fuoco di giovani e giovanissimi. Delle dieci vittime capitate quel giorno, sette erano neri, due ispanici, un solo bianco. Basta questo per capire che nell’America guidata allora da Barack Obama non si era tutti uguali. Scrive nel suo libro questo giornalista nero nato da genitori originari delle Barbados e da una vita negli Usa: «Le armi da fuoco sono la principale causa di mortalità tra i neri sotto i diciannove anni e la seconda per la stessa fascia di età in generale, preceduta solo dagli incidenti stradali».
Per i neri più facile trovare un proiettile. Per i bianchi, ma di poco, morire tra le lamiere di un’auto. Però i neri sono solo il 6% della popolazione degli Stati Uniti ma ben il 70% delle vittime di quel giorno di ordinari massacri.
Di quelle dieci vittime il giornalista del Guardian in questo libro prezioso ha ricostruito la storia parlando con famigliari ed amici. Ognuna è una storia a sé. Jaiden Dixon muore a nove anni a Grove City nell’Ohio, ucciso da un patrigno fuori di testa. Kenneth Mills-Tucker viene assassinato a diciannove anni a Indianapolis nell’Indiana, in un agguato di una gang.
Non fa differenza. Gary Younge giura di non voler fare un libro sulle discriminazioni razziali, ma la faccia di quell’America è impossibile non vederla. Il quartiere di Indianapolis dove muore Kenneth è composto al 62% di neri, 20% ispanici e solo il 15% di bianchi. Tra i neri il 38% non termina le superiori e il 74%, tra i sedici e i diciannove anni, se non va a scuola è disoccupato.
Intervistato al Festival della Letteratura di Mantova da Avvenire, Gary Younge va oltre alla semplice constatazione razziale: «A preoccuparmi non è il colore della pelle, ma l’età delle vittime. (…) Non sempre si tratta di poveri, ma di sicuro non siamo mai in un contesto borghese». Quello che ne esce è un libro duro, un pugno dello stomaco che fa nascere più di una riflessione. Sulla diffusione delle armi garantita dal Secondo Emendamento, sulla vita nei quartieri americani, sulla condizione delle minoranze. Ma pure su una certa cultura ancora dominante. Il deputato Joe Walsh, membro del Tea Party e rappresentante repubblicano al Congresso, arriva a scimmiottare Martin Luther King: «I have a dream… Ho un sogno: che un giorno gli attuali dirigenti afroamericani smettano di accusare il razzismo e il “sistema” di tutti i mali che affliggono l’America nera».
Lo smentiscono i dati che con minuziosa cura ha cercato il giornalista inglese: «Gli afroamericani hanno sei volte più possibilità di essere incarcerati, due di essere disoccupati e quasi tre di vivere sotto la soglia di povertà rispetto ai bianchi. (…) Praticamente tutti i Paesi occidentali hanno gerarchie di classe e legate al colore della pelle, e le disuguaglianze si stanno accentuando in gran parte del resto del mondo. Tuttavia sono pochi i Paesi in cui le distinzioni di classe sono così in contraddizione con il sistema di credenze che fonda la nazione, e in cui le disparità razziali sono al contempo evidenti e negate in modo spudorato».
Dati accentuati dalla crisi economica che dal 2008 ha bastonato fasce sempre più ampie della popolazione americana. Gary Anderson muore a diciotto anni a Newark nel New Jersey, assassinato per strada solo per aver indosso una felpa rossa, come l’assassino che il giorno prima aveva fatto fuoco su un altro giovanissimo per il controllo dello spaccio sulla Frelinghuysen Avenue. Facile dire che la vita vale niente in certi quartieri di Newark. Ma cosa ha valore in una città dove «tra il 1973 e il 1987 la percentuale degli uomini neri tra i venti e i ventinove anni che lavoravano nel settore manifatturiero è crollata dal 37 al 20%. (…) Un abitante di Newark su tre vive sotto la soglia di povertà, e in città il tasso di disoccupazione dei neri è pari a più del doppio di quello dei bianchi e a cinque volte la media nazionale»
Morire è facile se si è neri. Di più se si è neri in quartiere o in una città degradata, cosa assai probabile. Ma ci sono morti che pesano come piume e altre come montagne. Gary Younge lo ha scritto fin dalla prefazione di questo volume che ha il valore di aver acceso un faro su morti violente che spesso non meritano che un trafiletto su un giornale, un servizio frettoloso alla televisione locale, poco più di una didascalia quando va bene con una foto, in rete: «Se ognuna di queste morti rappresenta una tragedia personale con le sue ripercussioni all’interno della comunità, la loro somma non suscita che l’indifferenza generale.
Agli omicidi che avvengono ogni singolo giorno in luoghi e circostanze diverse manca infatti il carattere massivo e drammatico capace di attirare l’attenzione dei media nazionali come fanno le stragi nei cinema o nelle chiese. Distanti dal suscitare l’interesse dei giornalisti, queste morti quotidiane non sono altro che un monotono stillicidio, un brusio di fondo così debole da permettere al Paese di andare avanti indisturbato, in un contesto culturale, politico ed economico che fa sì che ogni mattina alcuni bambini si sveglino ma non vadano a letto mentre il resto del Paese dorme tranquillo».