La puntata è andata in onda il 18 febbraio 2018. I complottisti più solerti hanno evidenziato il tempismo della messa in onda di un episodio di Masterchef in cui la Mistery box era stata affidata a sette chef rifugiati: a sole due settimane dalle urne, Sky si era permessa di far comparire in video dei cuochi provenienti dalla Somalia, dalla Nigeria, dallo Yemen. Tra questi c’era anche Taha al-Jalal, che a Masterchef ha portato la ricetta del kapsa. Un piatto a base di pollo e riso basmati che è stato mangiato dagli chef con le mani, come da indicazioni del cuoco yemenita che li osservava dalla balconata dello studio di Masterchef.
Come ci sia arrivato, a guardare dall’alto Bruno Barbieri, Antonia Klugmann, Joe Bastianich e Antonino Cannavacciuolo, Taha al-Jalal lo spiega per gradi. Comincia tutto con l’arrivo a Milano, nell’ottobre del 2014: i primi sei mesi sono i più difficili, i milanesi pare siano sempre di corsa. «Robot», li chiama. Non che sia pentito di essere venuto in Italia: ha seguito la donna che ama, Laura Silvia Battaglia, una giornalista esperta di Medio Oriente. Taha al-Jalal è laureato in traduzione e interpretariato all’Università di Sana’a, ha insegnato inglese agli yemeniti e arabo agli stranieri. E ha studiato per andare negli Stati Uniti, non in un Paese rissoso e caotico che gli si mette sempre di traverso, almeno all’inizio. Nei primi mesi in Italia scopre soprattutto la consolazione alla nostalgia per il proprio Paese che può dare preparare i piatti che gli cucinava la madre.
Il suo visto turistico si rivela un ostacolo per avere la borsa di studio per il Master in Relazioni internazionali che ha frequentato comunque, per tenersi aperta la possibilità di lavorare in quel campo, e scade nel febbraio del 2015. Proprio nel mese in cui l’ambasciata italiana lascia lo Yemen, diventato un Paese in guerra. Ne discute con Laura Silvia proprio la sera di San Valentino, e poi Taha decide di rimanere in Italia con la sua nuova famiglia, avviando le pratiche per chiedere lo status di rifugiato in Italia, ma il destino sconvolge di nuovo i suoi progetti.
A ridosso della discussione della tesi, è il 28 ottobre 2015, una sera in cui Laura Silvia per lavoro si trova in un’altra città e può stargli vicino solo via Skype, si sente male: iniziano mesi dentro e fuori dall’ospedale. E per Taha quello è il momento che rappresenta una cesura nel suo modo di vedere l’Italia. «All’inizio non mi piaceva», ci ha raccontato. «Per tredici anni, ho studiato inglese e divorato la cinematografia americana perché volevo andare a vivere negli Stati Uniti: non avevo mai pensato all’Italia, tantomeno alla possibilità di studiare una lingua parlata solo da poco più di sessanta milioni di persone». La scelta di vivere qui era stata ancora una volta dovuta al destino. All’amore nato in Yemen, dove la donna che poi è diventata sua moglie era andata per studiare arabo. Ed è solo stando in ospedale e scoprendo l’umanità di chi lo ha curato che Taha impara ad amare l’Italia. E decide di voler imparare l’italiano. Laura gli sta sempre accanto, cercando di spiegare alla sua famiglia in Yemen, in balia di una guerra scoppiata fra sciiti e sunniti, cosa stia affrontando loro figlio, e facendogli scudo. Come la volta che, stanca di sentire la vicina di camera inveire contro gli immigrati e in particolare con quelli che si approfittano della sanità italiana, si è presentata nella sua camera con una scatola di cioccolatini, spiegando che quell’immigrato della camera a fianco era suo marito e stava riposando. Stesso stratagemma, questa volta in forma di pastiera, era stato usato da Laura per disinnescare l’ostilità di una vicina di pianerottolo, irritata da una sveglia che riproduceva l’adhan (il canto che chiama alla preghiera, ndr) ogni giorno all’alba.
Anche quando sembra c’entrare poco, il cibo rientra nella storia di Taha, che una volta guarito è riuscito a portare la sua cucina fuori dalle mura di casa. Dapprima partecipando a un catering multietnico in zona Solari, poi lavorando nei ristoranti. Fino all’incontro con una producer di Masterchef, che nel 2017 lo ha selezionato per la squadra dei cuochi rifugiati. Prima di congedarci, sua moglie, tra l’altro anche autrice della graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, 2017), ci fa vedere le immagini dei loro viaggi insieme nello Yemen in guerra, lei bardata dentro un niqab e lui vestito da yemenita riparato in Occidente per entrare e uscire indisturbati dalle zone off limits. Immagini di un Paese in guerra accostate a quelle buffe e radiose del matrimonio festeggiato per tre giorni di seguito nello Yemen, come vuole la tradizione. Ora Taha Al-Jalal, con un socio che è richiedente asilo e fa il pasticcere, ha avviato la sua prima impresa. Le storture italiche continuano a renderlo insofferente, anche se sostiene che Italia e Yemen abbiano in comune più di quanto possa sembrare, «Alla fine sono entrambi Paesi fondamentalmente ricchi, in diverso modo corrotti e soprattutto di confine».
* Dettaglio di una pagina di La sposa yemenita