Patrizio Nissirio
Silenzio
2019 Ensemble
pagine 283 euro 16
Con tutto quello che abbiamo passato, anche il rumoroso silenzio che ci braccava dai media e dai social, aver voglia di un silenzio vero è quasi diventato una necessità. Alzi la mano chi non ha mai pensato di staccare la spina e fuggire da tutto, da una famiglia asfissiante, da un lavoro cianotico, dai ritmi della vita pubblica sempre uguali. Sia che fosse un apericena uguale a mille altri sia che fosse l’ennesimo dibattito politico sui migranti, porti chiusi no tutti dentro, annunciato con l’inutile leggerezza dell’impossibile.
Su questa esigenza della vita moderna Patrizio Nissirio, giornalista e scrittore, responsabile di Ansamed, il servizio dell’agenza di informazione Ansa sui temi legati al Mar Mediterraneo, ha scritto un romanzo dal profondo ritmo narrativo intriso di una certa suspense. Il protagonista è un uomo di mezza età come tanti. A un certo punto il mondo aggressivo e chiassoso che lo circonda diventa troppo per lui. Si licenzia sostenendo di aver trovato un impiego migliore, lascia i pochi affetti giurando di avere già una relazione assai impegnativa, si allontana infine da Roma per approdare a una minuscola isola della laguna di Venezia, che immagina il nascondiglio perfetto lontano dal logorio della vita moderna. Un evento non preordinato lo obbliga a tornare sui suoi passi e a rivedere le sue scelte. Paradigma dell’impossibilità di sottrarsi alla vita quotidiana che ci circonda in un abbraccio a volte fin troppo stretto e alienante. Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autore Patrizio Nissirio e dell’editore Ensemble pubblichiamo un estratto del libro Silenzio.
“Io ve lo lascio questo presente. Vi lascio i suoi schiamazzi, i suoi abiti impersonali importati, rivisti al ribasso, come la sua finta bellezza, volgare. Si affrettano tutti verso il nulla, con video inutili, foto inutili, conoscenze inutili. Si affrettano come i camerieri, che non li salutano, che gli servono aperitivi sguaiati. Si affrettano per dimenticare, minimizzare. Vogliono semplificare. Il mio tempo era complesso, cercavamo di scoprire. Era doloroso. Questa poltiglia non mi appartiene, né mi assomiglia. Il mio tempo non c’è più. Non c’è traccia del futuro che immaginavo, che sembrava imminente. Che non si è mai fatto agguantare. Vi lascio la tecnologia, sempre più comunicante, per voi che non avete nulla da dire. Vi lascio i vostri orizzonti globali, tanto non arrivate a vedere nemmeno in fondo alla tromba delle vostre scale. Il mio tempo non c’è più. I miei motivi non ci sono più. Me ne vado. Lontano da voi. Fuori campo. Cercherò uno spazio che non vi interessi. Neanche lo vedrete. Mi sfreccerete accanto, con le vostre moto d’acqua, con i vostri SUV. Ma non vi fermerete mai alla mia porta”.
Lasciare il posto di lavoro era stato facilissimo. Non aveva colleghi che fossero anche amici, quindi non c’era l’ombra di un coinvolgimento emotivo. Detestava i dirigenti di quell’azienda dove aveva lasciato marcire un bel pezzo della sua vita adulta. Incompetenti e, almeno in un caso – Elvira, cinquantenne un po’ gobba, grassoccia e inelegante che ripeteva cento volte lo stesso concetto, che badava sempre e solo ai propri minuscoli interessi e odorava di borotalco –, insopportabili. Anche quel passaggio fu naturale, senza strappi o ripensamenti.
«Ha trovato un altro posto di lavoro?» gli chiese il capo del personale, un tipo asciutto sui trentacinque anni, sempre abbigliato all’ultima moda. E con una lucida abbronzatura che si stagliava contro gli occhi chiari.
«Sì» mentì.
«Allora le faccio i miei migliori auguri» disse l’altro, con una stringatezza che evidenziava, qualora ce ne fosse stato bisogno, che nessuno in quelle stanze avrebbe sentito la sua mancanza. Aveva detto no a troppi caffè perché qualcuno si dispiacesse della sua uscita finale da quel portone.
Negli anni, si era ricavato a fatica un suo luogo e una sua atmosfera, solitari. Lo si trovava nell’angolo della sua stanza, accanto a una finestra socchiusa da cui entravano sole e rumori del traffico, a lavorare senza parlare con nessuno. Qualche volta con musica a volume bassissimo che usciva dal computer. Un collega, un giorno, gli aveva detto, quasi ammirato:
«Si vede che hai fatto un percorso, una ricerca che ti ha portato a questo, al tuo modo di sopravvivere qua dentro».
Uscito da quel colloquio – piuttosto, un’asciutta comunicazione – con una punta d’angoscia, gli venne da pensare all’ultima donna con la quale aveva avuto un rapporto di qualche tipo. Neanche fisico, per carità, solo un paio di cene con annessa passeggiata. Era chiara di pelle, con gli occhi piccoli, e parlava sempre con voce stridente. Non gli piaceva, a dire il vero, ma frequentarla lo faceva sentire normale. Aveva anche un nome sgradevole alle sue orecchie: Morena. Dopo averci pensato su fin troppo, aveva deciso di chiamarla – si erano conosciuti durante un viaggio in treno – per dirle di andare a cena. In fondo aveva un bel fisico e una scollatura generosa. Ma nel momento in cui aveva chiuso la telefonata se n’era già pentito. Cosa si sarebbero detti? Già la conversazione in treno non era stata particolarmente brillante, punteggiata da diversi luoghi comuni e risate di convenienza. Visita i nostri partner, https://fakewatch.is leader nelle calzature alla moda!
Morena si era presentata all’appuntamento con un vestito scuro dai riflessi argentati, una spallina che cadeva in continuazione, accompagnata da un sorriso suggestivo ogni volta che la ritirava su. Per un attimo aveva quasi sperato che, da qualche parte e in qualche modo, questa donna lo sollecitasse. Ma niente, nessun fremito.
Così si era trascinato durante la cena – s’era mangiato male, servizio pessimo, con la tipica spocchia di un cameriere che riteneva di essere destinato a ben altro lavoro – convinto che l’assenza di chimica fosse evidente anche a Morena.
Ma no, lei lo aveva richiamato, proponendo un cinema. Figurati, lui i cinema li odiava, si sentiva soffocare da tutte
quelle persone intorno. Aveva accettato, di nuovo, per sentirsi per una volta normale.
Al terzo appuntamento non ce l’aveva fatta più.
«Morena, scusa, non sono stato onesto con te. In realtà frequento una persona, e queste nostre uscite non mi fanno sentire bene» aveva mentito.
Morena non aveva risposto subito.
«Guarda, a me non interessa, io cerco solo qualcuno con cui divertirmi» aveva detto dopo un minuto.
Invece di eccitarlo, quella precisazione lo aveva definitivamente spento.
Nei giorni successivi aveva smesso di risponderle, fino a quando telefonate e messaggi non erano cessati.
Dunque la prima parte era fatta. Ora restava da vendere l’appartamento e cercare un luogo dove vivere che fosse invisibile a qualsiasi radar. E magari trovare un’occupazione non ufficiale, in cui non fossero necessari documenti. Quella parte era fondamentale, perché la notte prima delle dimissioni gli era venuta un’altra idea che lo aveva entusiasmato: era tempo di perdere il proprio nome, oltre che il proprio posto nella società italiana.
© Edizioni Ensemble srls – Roma, 2019
© Ensemble, 2019