A più di un mese dall’inizio dell’isolamento, anche chi di noi non è mai ricorso al lettino dell’analista o alla psicoterapia è stremato dalla dura prova della quarantena. Ma cosa accade quando la paura del contagio, la reclusione forzata e l’obbligo sociale di tenersi a distanza di sicurezza da chicchessia si riverberano su chi stava già affrontando un percorso psicoterapeutico?
Ronke Oluwadare ha 32 anni, è di origini nigeriane ed è una psicoterapeuta familiare che, oltre a lavorare per la clinica privata Pantarei, a Milano opera anche in un consultorio laico, l’AIED, dove ha in cura diversi pazienti di seconda generazione.
«Ogni singolo individuo di seconda generazione ad un certo punto deve affrontare un processo di equilibrio fra cosa può prendere dal gruppo di appartenenza e quello del posto in cui sta crescendo. Trovando un modo personale per mettere insieme queste due cose, per non dissociarsi», ci dice la dottoressa Ronke Oluwadare. «Nell’ultimo mese, ha ricevuto i pazienti solo online, principalmente via Skype».
Dottoressa Oluwadare, che effetti sta producendo la reclusione forzata sui suoi pazienti?
«La percezione di pericolo ed incertezza delle ultime settimane fa riemergere vecchie ferite che non si sono cicatrizzate e mette di fronte a questioni irrisolte che magari non si è stati in grado di affrontare prima di questo momento. La vera sfida per molti è aggiustarsi alla sensazione di isolamento e solitudine che dà più spazio all’autoriflessione».
Quali sono i motivi principali per cui i ragazzi 2g si rivolgono a lei?
«Il filo comune che lega questi ragazzi è la questione identitaria, che solitamente non emerge prima dell’adolescenza. In termini tecnici si parla di processo di individuazione. Accade a tutti gli adolescenti, ma per un ragazzo di seconda generazione la sfida è maggiore in quanto la cultura d’origine non è sempre allineata con quella di nascita o comunque quella in cui si vive».
Mi può spiegare meglio?
I ragazzi di seconda generazione portano il peso della lealtà, ovvero il senso di riconoscimento nei confronti dei sacrifici dei genitori, che può essere l’aver lasciato la propria terra o aver fatto un mestiere non all’altezza delle proprie qualifiche.
«Il tema della riuscita è un altro aspetto fondamentale nei ragazzi di 2g e quanta propensione si ha all’idea del fallimento. Spesso e volentieri un giovane adulto di 2g non si può permettere il fallimento perché c’è tutto un non detto sul fatto che lui deve riuscire non solo per sé ma anche per i suoi genitori e per i suoi nonni. Porta con sé il peso di tre generazioni. E questo incide in maniera importante sulla psiche dell’individuo».
I ragazzi che segue dicono ai propri familiari della terapia?
«Dipende molto dalle famiglie e da quanto si sente libero il ragazzo di parlarne. Spesso i ragazzi non lo comunicano, soprattutto i maggiorenni che possono fare a meno del consenso firmato. Personalmente chiedo ai ragazzi se l’hanno comunicato alle famiglie, perché denota un processo di crescita. Quando un ragazzo mi dice che è riuscito a dirlo alla madre, al padre o al fratello, la percepisco come una mini vittoria. In generale avere il loro supporto è fondamentale: è una buona base per spiccare il volo».
Qual è l’origine dei suoi pazienti di 2g?
«Per la maggior parte del nord Africa e qualche ragazzo latino-americano».
Nessuno dell’Africa sub-sahariana?
«Per ora non mi è capitato».
Pensa che questo sia dovuto all’esistenza di un tabù in quelle comunità?
«Senza ombra di dubbio. Sento che l’Africa sub-sahariana ha un tabù ancora più grande di altre aree culturali rispetto alla psicoterapia. Ne parlavo anche con degli amici di origine africana, penso che abbia a che fare con il tema della fiducia. È un tema ricorrente. Molti dicono “Uno psicologo bianco non potrebbe capirmi”».
Crede che un ragazzo di 2g riesca ad aprirsi di più davanti a uno psicologo con una storia simile alla loro?
«Al consultorio la terapeuta non si sceglie: dopo un colloquio conoscitivo con la referente, l’assegnazione avviene in base alla disponibilità dello psicologo e al tema che si porta».
Nella casualità, però, alcuni ragazzi dicevano di sentirsi molti fortunati con me, perché potevano parlare di certi temi con più facilità, per esempio degli atti di bullismo legati all’etnia.
«Alcuni hanno provato meno imbarazzo all’idea di dirmelo, proprio perché pensavano che io potessi capirli meglio. Per altri invece credo che sia indifferente: sono talmente concentrati sul proprio sintomo che non sentono il fatto di essere di 2g come un ostacolo ulteriore. In generale, la relazione terapeutica è una relazione. Alcune relazioni funzionano e altre no. C’è l’idea che se lo psicologo è bianco sicuramente non riuscirà a capire. Ma non è così».
Gli psicologi devono avere una formazione specifica rispetto alle problematiche dei nuovi italiani?
«Sicuramente, ma dovremmo avere una formazione specifica anche rispetto all’identità di genere e a tutto lo spettro della diversity. Non ci possiamo permettere si studiare i manuali di psicologia clinica del Novecento e sentirci a posto con la coscienza, perché noi lavoriamo con le persone e le persone evolvono, sia come individui che come società».
E non si può considerare un adolescente di 2g come un normale adolescente perché vive le sfide dell’adolescenza unite a tutte un’altra serie di sfide sottese che spesso i genitori non vedono.
Crede che il clima politico degli ultimi anni abbia acuito tali disagi?
«Più che altro ha impedito quell’evoluzione che credevo avremmo già avuto oggi in termini di rappresentazione. Durante il mio tirocinio ai tempi della scuola di specializzazione, andavo nelle scuole a fare progetti di prevenzione sull’affettività e sulla sessualità. E ci andavo volentieri anche perché potevo dare un’idea di rappresentazione e mostrare ai ragazzi di 2g negli istituti superiori di Milano che avrebbero potuto essere quello che volevano».
Secondo lei, quando è nato il tema della rappresentazione della diversità?
«Quando io ero bambina non esisteva la rappresentazione della diversità. A me l’hanno insegnato i miei genitori che potevo diventare quello che desideravo, ma ciò non basta, aiuta anche quando te lo dice la società. Se penso alla me stessa di tredici anni, ora avrebbe più accesso a tali rappresentazioni grazie ai canali che permettono di seguire i modelli positivi d’oltreoceano. Se ci fermassimo alla tv e ai media italiani non si vedrebbe rappresentata mai».
Quanto sono importanti i social in questo senso?
«Molto. Oggi almeno i social dicono ai ragazzi di oggi che c’è un posto nel mondo dove una donna nera presenta un programma in prima serata».
Prima o poi, non sentendosi rappresentati molti di questi ragazzi se ne andranno. Molti l’hanno già fatto, scegliendo le grandi città europee o americane.
Una fuga di cervelli dettata dalla non accettazione sociale?
«Esatto, non se ne vanno per trovare un lavoro. La questione è che se ne vanno perché non si sentono a casa. Preferiscono un luogo dove si sentono visti e riconosciuti».