Il 5 maggio Beirut ha visto scendere in piazza centinaia di lavoratori domestici, provenienti da vari stati africani e asiatici, uniti nel richiedere l’abolizione della Kafala, un sistema di sponsorizzazione del lavoratore previsto e regolato dal diritto islamico in diversi Paesi del Medio Oriente, come Libano e Giordania, ma molto diffuso anche in Arabia Saudita e negli altri Paesi del Golfo. Un sistema che alimenta quella che è stata definita una forma di schiavitù contemporanea, e che da decenni viene condannata da associazioni nazionali e internazionali di tutela dei diritti umani.
La Kafala in Libano
In questo modo, è il datore di lavoro locale che copre le spese per il trasporto e per il visto, dal quale dipende interamente la permanenza del lavoratore in Libano: il permesso di residenza è valido solo per la durata del contratto e prevede il rimpatrio qualora esso giunga a termine senza essere rinnovato. Con la Kafala il lavoratore non può scegliere di cambiare lavoro né terminare il contratto senza un esplicito permesso scritto da parte del datore, e non senza incorrere in sanzioni o procedimenti penali.
Chi fugge è perseguibile per il reato di “latitanza”, senza i propri documenti è costretto a lavorare illegalmente e rimane intrappolato in un Paese da cui non può più fuggire.
Quasi sempre lo sponsor detiene il passaporto e il permesso di residenza di chi assume, nonostante in Libano questo sia vietato dalla legge.
I lavoratori domestici stranieri non sono inclusi né tutelati dal diritto del lavoro libanese, in caso di fuga vengono trattati come criminali anche se vittime di abusi, non hanno alcuna assicurazione sanitaria e i loro stipendi (quando non vengono trattenuti) sono notevolmente al di sotto della media.
Human Rights Watch denuncia l’altissimo tasso di suicidi legati a questo stato di cose, in media uno alla settimana: solo pochi giorni fa il video di una ragazza etiope che tenta di lanciarsi da un balcone ad Aramoun ha fatto il giro dei social network e scosso l’opinione pubblica. Non è l’unico caso: un numero crescente di testimonianze di abusi sessuali, violenze fisiche e verbali, di privazione di cibo e cure mediche, di trinceramento tra le mura domestiche comincia a venire a galla, portando all’interesse dei media internazionali.
La storia di Rose
Rose è una delle tante donne che il 5 maggio ha preso parte alla manifestazione: ha 32 anni di cui 4 trascorsi in Libano. Lei è del Camerun, è scappata dalla povertà ma oggi, se potesse, tornerebbe subito a casa. Non può, perché la sua madame si rifiuta di terminare ufficialmente il contratto e di restituirle il passaporto.
Rose vive in una casa ricca, ma la sua camera consiste in un terrazzo coperto, il suo letto è proprio accanto alla lavatrice, i suoi pasti sono quasi sempre a base di riso e patate.
Durante la settimana non le è consentito uscire, e spesso le viene negata anche la domenica libera. Lavora tutti i giorni, a volte fino a notte inoltrata, per uno stipendio mensile di 200 dollari. La maggior parte delle volte, le festività non sono concesse a questi lavoratori, e neanche la malattia: Rose racconta di aver avuto problemi di salute in passato e di non aver potuto ricevere le cure necessarie, se non del panadol e del laban (yogurt tipico libanese) da parte della signora per cui lavora.
Ricatti e insulti non mancano, spiega: l’intera famiglia si riferisce a lei come “il cioccolatino”, e davanti al più timido tentativo di protesta la risposta diventa “se apri la bocca strappo il tuo passaporto, non sei pagata per parlare”. Chi arriva in Libano come ha fatto lei, ci dice, non sa quello a cui va incontro.
I lavoratori immigrati vengono costretti a firmare un contratto in arabo senza avere la possibilità di tradurlo. In sintesi accettano a scatola chiusa un destino a cui poi non possono più sottrarsi.
Il film e le denunce
Un destino che la regista libanese Nadine Labaki ha riassunto magistralmente in Cafarnao, film vero e struggente sulla realtà dei lavoratori migranti in Libano. Un destino che si riflette nel volto disperato del personaggio della domestica Rahil, che la sera torna in una baraccopoli periferica di Beirut con il suo bambino nascosto nel carrello del cibo, perché se la polizia lo scoprisse glielo porterebbe via e lei sarebbe immediatamente rimpatriata in Etiopia. La sua storia scava nel profondo, sbatte in faccia allo spettatore ignaro una versione del mondo che in Libano è largamente accettata, ma tocca i punti più bassi della brutalità umana.
I lavoratori stranieri nel Paese sono circa trecentomila su una popolazione di 6 milioni circa e il sistema della Kafala inizia a creare anche inconvenienti diplomatici con i Paesi di provenienza: Nepal, Sri Lanka, Filippine, Etiopia e Madagascar hanno introdotto un “migration ban” per impedire ai propri connazionali di emigrare in Libano e in altri Paesi nei quali la tutela dei loro diritti umani è messa a rischio. Ma persino le conseguenze di questa misura sono potenzialmente negative, come l’impossibilità di tornare a casa anche solo per una vacanza, per via del rischio di non poter poi tornare indietro.
Servirebbero piuttosto misure risolutive, volte ad abolire un sistema anacronistico che stona con i trattati internazionali firmati e ratificati dal Libano.
Prospettive future
Qualcosa effettivamente si sta muovendo. Il 25 marzo, a poche settimane dalla formazione del nuovo governo libanese, il ministro del Lavoro Camille Abousleiman ha dichiarato di voler abolire – o quantomeno riformare – il sistema della Kafala e ha formato una commissione di esperti per elaborare un piano d’azione in questo senso. Al tempo stesso, però, alcuni articoli e pagine di Facebook che si occupano di questo argomento sono stati oscurati dal governo libanese.
Voci e denunce emergono solo come la punta dell’iceberg, dato che gran parte delle vittime di questo sistema non può scendere in strada a manifestare, ma restano relegati nelle loro prigioni domestiche, terrorizzati e minacciati dai loro datori di lavoro. “Madame, sono un essere umano” recita uno striscione, ed è ora che il Libano se ne renda conto.