Nelle pieghe, neanche troppo nascoste, di Milano esiste una realtà multietnica e vivace, quella del Giambellino. Un quartiere in continua evoluzione che, nonostante i numerosi interventi di riqualificazione, rimane dilaniato tra problemi endemici e nuovi conflitti sociali. Gli antichi abitanti del quartiere si ritrovano a condividere il pianerottolo con stranieri di varia provenienza, in un melting pot male assortito in cui i ragazzi faticano a inserirsi. Esistono però realtà dove i giovani trovano uno spazio neutrale in cui rifugiarsi e dove è in atto un costante processo di empowerment personale.

Come al civico 6 di via Gentile Bellini, dove sorge il Centro Diurno di aggregazione giovanile gestito dalla Cooperativa sociale Comunità del Giambellino, nonché uno dei Punti Luce che Save the Children ha aperto in tutta Italia. I giovani che varcano i cancelli del centro trovano attività, laboratori, ma anche semplicemente un punto di svago alternativo alla strada. Pur vivendo a Milano, sono isolati dalla vita cittadina di stampo imprenditoriale.

Rimangono intrappolati in un limbo dove vivono le contraddizioni fra cultura di origine delle loro famiglie e la società occidentale in cui crescono

I nuovi italiani del Giambellino

I ragazzi di origine straniera del Giambellino vivono una doppia vita, in bilico tra una presenza familiare molto invadente e un richiamo molto forte del Paese in cui crescono, l’Italia. Come spiega il coordinatore del progetto, Dario Anzani: «Oltre al mestiere di essere adolescenti, sono anche genitori per i fratelli minori e mediatori culturali per le loro famiglie». Spesso soggetti a regole che stridono con il tessuto sociale in cui crescono, vivono un continuo conflitto identitario in cui l’essere adolescenti viene messo in secondo piano. Il Centro Diurno è per loro un’oasi neutrale, un luogo in cui il gruppo viene costruito sulla base di una riflessione comune e sulle necessità puramente giovanili, non su regole predefinite dalla comunità di origine. Un luogo dove chi fuori non ha voce, chi a casa è solo una figura sbiadita, può essere protagonista.

Un passato e un presente difficile da raccontare.

Alcuni di loro sono arrivati in Italia trascinandosi il peso di cose che un bambino non dovrebbe mai vedere. Sadia ha tredici anni ed è scappata dalla Siria con i genitori ed il fratellino, dopo un periodo trascorso nei sobborghi di Beirut. La sua casa non sa se è ancora lì, ad Homs. E della sua prima vita, quella prima di arrivare in Italia, ricorda quasi solo la sua migliore amica e vicina di casa.

Sadia ha saputo che la sua amica non è riuscita a scappare, è stata uccisa. Sa solo questo e lo racconta col distacco di chi il trauma della guerra ce l’ha ancora troppo in superficie, sulla pelle.

Molti sono invece nati in Italia, come Zaina, di origini marocchine. Adesso che sta per compiere quattordici anni e i suoi genitori le hanno impedito di uscire con i suoi amici maschi. Lei vorrebbe solo andare al campetto per giocare a basket, ma si scontra con un muro culturale difficile da abbattere.

Nura invece ha 18 anni ed è egiziana. Vorrebbe partecipare alla gita al mare organizzata dal Centro Diurno, ma suo fratello maggiore glielo impedisce, spesso senza lesinare violenze fisiche e psicologiche. Del resto lei ha diciassette anni, ma la sua adolescenza si riassume e si esaurisce nel ruolo di vicemadre per i suoi fratelli minori e per le faccende domestiche.

Qadira invece è in Italia da sei anni, eppure conosce solo qualche parola di italiano. Inghiottita dalla comunità egiziana del quartiere, ha vissuto per anni senza andare a scuola, senza avere contatti con gli italiani

Immaginare piazza Tirana – Foto di Ilaria Tullio

Immaginare un Giambellino migliore

Tutti loro hanno un passato, e un presente, con cui è difficile convivere, eppure i loro sforzi sono volti a un vera e propria rivoluzione culturale, verso i loro genitori ma anche nel rapporto con la percezione che gli italiani hanno di loro. La portano avanti individualmente, scontrandosi quotidianamente con l’indifferenza e il razzismo dei loro concittadini e le imposizioni dei genitori.

Questi ragazzi non sono però lasciati soli in questa impresa, il Centro Diurno del Giambellino li coinvolge in progetti di più ampio respiro, mirati a far sentire questi ragazzi a casa, dando loro una forma e una prospettiva alle strade che calpestano tutti i giorni.

Come in Immaginare piazza Tirana, dove hanno preso parte a tre laboratori organizzati da BASE Milano, volti alla trasformazione di una delle piazze più emblematiche della zona. Tramite la street art, il design urbano e la realtà aumentata hanno dimostrato agli altri abitanti del quartiere che loro ce la mettono tutta, che sono intraprendenti e pieni di doti da tirare fuori.

Grazie ai progetti del Centro Diurno, questi giovani spesso lasciati nell’ombra possono essere protagonisti. Hanno avuto modo di intervistare i loro concittadini, spesso ricevendo risposte razziste, sebbene malcelate. Alcuni però, soprattutto gli anziani, li hanno sorpresi con risposte che hanno mostrato maggiore consapevolezza. «Mi fa piacere sentire ragazzi di altre etnie che parlano italiano», ha detto loro uno storico residente del quartiere.

Venti anni fa lo straniero era lo straniero, invece ora l’abitudine sta sedimentando una maggiore integrazione. Il razzismo è innato, si supera solo con la conoscenza reciproca e bisogna partire dalle scuole perché questo avvenga

Per quanto spesso non pienamente consapevoli del loro attaccamento al territorio – in grande maggioranza faticano a definirsi milanesi – difendono più o meno inconsciamente la realtà che li circonda. «Il Giambellino è un quartiere bellissimo, chi lo critica dovrebbe prima provare a venire qui e respirare la vita di queste strade, poi giudicare» dice uno dei giovani che frequentano il Centro Diurno.

Il peso del distanziamento sociale

In questo periodo storico di pandemia, i ragazzi vivono un periodo particolarmente delicato. Molti di loro, durante il lockdown, sono stati costretti in vere e proprie trappole casalinghe, strappati dal confronto col tessuto sociale e con enormi difficoltà a stare al passo con la scuola. La distribuzione di computer e laptop ha in parte tamponato un potenziale allontanamento scolastico con conseguenze disastrose su ragazzi che già vivono un contesto complicato. «Come se molti di loro fossero stati due mesi nei loro Paesi di origine», spiega con ironia, il coordinatore Dario Anzani. Una battuta dal fondo amaro, che evidenzia la necessità di offrire un ponte a dei ragazzi che vogliono essere parte attiva del contesto territoriale in cui vivono, ma non hanno gli strumenti per farlo.

Fra i ragazzi del Giambellino c’è una generazione dimenticata, molto spesso anche da parte delle istituzioni, che non deve essere lasciata indietro. “Integrazione” non dev’essere una parola sbandierata nei salotti e poi dimenticata nelle periferie. Anche questi ragazzi meritano un posto nel mondo, e sta a tutti noi fargli spazio.