Uno su tre “bocciato”, La metà dei maturandi “analfabeta” in matematica, ma anche Nord vs Sud e Il flop dell’inglese: quando si tratta di Invalsi, la prova standard per la valutazione del sistema scolastico italiano, i titoli sulla stampa italiana non si risparmiano. Eppure, la prova non è nata per fare comparazioni tra regioni d’Italia, generi o classi di studenti, ma per misurare la corrispondenza del nostro sistema educativo con la sua missione istituzionale, rilevando dove possibile i punti di forza e (più spesso) di debolezza nel raggiungimento degli obiettivi. Tra questi c’è, oggi, l’inclusione di chi, nato in un altro Paese o da genitori con cittadinanza diversa da quella italiana, si trova ad iniziare nella scuola un percorso di cittadinanza nel nostro Paese.

Come funziona l’Invalsi? 

La prova consiste in un esame di italiano, matematica e di inglese (lettura e ascolto, dove previsto) per gli studenti di cinque anni chiave: il secondo e il quinto anno delle elementari e delle superiori, e il terzo delle medie. Di queste classi l’Invalsi esamina ogni anno l’intera popolazione scolastica, per estrarre in un secondo momento un campione di circa 150 mila studenti, suddiviso per regioni, classi e tipologia scolastica. Nel giudizio generale, la scuola italiana passa la sufficienza nelle regioni del Centro-Nord, dove pure si concentra l’impatto dell’immigrazione (circa il 20% degli alunni delle elementari nel Nord-Ovest e nel Nord-Est sono stranieri, quasi tutti di seconda generazione) e il disagio sociale delle periferie, fallisce a Sud e nelle Isole (in Calabria, Campania e Sicilia il 60% dei ragazzi non raggiunge le competenze minime richieste dai programmi).

I nuovi italiani

La visione cambia un po’ nell’ottica dei “nuovi italiani”. Innanzitutto, balza all’occhio una singolare discrasia: a 10 anni, cioè al termine del ciclo scolastico primario, gli alunni  stranieri, in difficoltà in italiano e in matematica, registrano nella media nazionale risultati migliori dei loro compagni italiani in inglese, in particolare negli esercizi di comprensione orale e, se di seconda generazione, anche nella lettura. La spiegazione dipende da vari fattori, statisticamente pesa la minore presenza degli alunni stranieri nelle scuole meno performanti del Sud, penalizzanti nel voto Invalsi. Ma, nel caso dell’inglese, i ragazzi partono dallo stesso livello di competenza linguistica, a prescindere dalla lingua in famiglia, e per questa ragione tendono ad ottenere risultati paragonabili.

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Fare la differenza

Il divario negli esiti si approfondisce attorno alla competenza chiave dell’italiano se confrontiamo i risultati dei ragazzi non italiofoni di prima e di seconda generazione: i primi, registrati dal campione Invalsi anche dopo un solo anno di scuola, risultano nettamente penalizzati dall’inizio per l’intero ciclo di studi (13 anni); i secondi, nati in Italia, evidenziano nel corso del tempo una crescente capacità di recupero sia nella prova di italiano sia di matematica, con risultati finali spesso superiori alla media delle regioni meridionali. È la conferma che l’istituzione scuola, quando funziona, può ancora fare la differenza rispetto a una situazione di diversità culturale o di svantaggio sociale.

Il problema per chi si occupa di scuola non è affatto nuovo, ma con l’evoluzione multiculturale della società italiana diventa ogni anno più stringente. Già cinque anni fa, Graziella Favaro, studiosa e ricercatrice della trasformazione in senso multiculturale e plurilingue della scuola italiana, osservava: «Lo scarto rilevante che si registra in seconda, e che riguarda anche i bambini nati in Italia, sottolinea con forza l’importanza della scuola dell’infanzia e dell’acquisizione precoce, fra i tre e i sei anni, della seconda lingua per i bambini figli di immigrati, prevedendo dispositivi più efficaci».

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