Mario Sei
Message in a bottle. Storie e testimonianze di giovani tunisini otto anni dopo la rivoluzione
(Agenzia X, 2019)
Sono passati solo otto anni dalle primavere arabe che hanno fatto sognare popoli e generazioni. Cosa sia rimasto nelle teste e nei cuori di tanti giovani tunisini ce lo racconta Mario Sei, docente di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università Manouba di Tunisi. Con un lavoro didattico e storico che ha pochi precedenti per la qualità della narrazione di prima mano, Mario Sei ha chiesto a sei ragazzi e sei ragazze tunisini, tutti tra i 24 e i 34 anni, studenti della Facoltà, di raccontare in prima persona le loro aspettative e i loro sogni. Più a Nord di Lampedusa, separati da un braccio di mare che gli scafisti con il loro carico di migranti attraversano ogni giorno, Tunisi e la Tunisia sono non solo in un altro Continente ma quasi in un altro mondo. A far scoccare la protesta delle primavere otto anni fa, la condizione economica di tutta l’area del Maghreb. Una condizione secolare mal sopportata da una generazione più acculturata dei loro padri, più attenta al mondo in crescita poco lontano dai loro confini. Chiedevano una vita migliore, condizioni politiche adeguate ai tempi moderni e una posizione sociale che li proiettasse in un avvenire che sembrava a portata di mano.
Otto anni dopo, lo scontro con la realtà si è fatto faticoso. Le condizioni economiche anziché migliorare sono peggiorate a causa della crisi economica che da ultima è arrivata a picchiare anche in Africa. Le aspettative politiche di modernizzazione sono state ridimensionate se non deluse. Il braccio di mare che li separa dall’Occidente sembra sempre più difficile da attraversare. Ma la forza vitale di chi mise in moto le rivolte è rimasta ancora quella di allora. Forse addirittura più forte, alimentata da un senso di frustrazione che non lascia scampo. Nessuno verrà ad aiutare i giovani che vivono a Tunisi ma grazie ad Internet e alle parabole della televisione sono affacciati sul mondo che cambia a velocità supersonica. Da Lamia, Housseim, Marwan, Selma, Mohamed, Amira e da tutti gli altri studenti di Letteratura italiana a Tunisi, non arriva un grido di aiuto ma molto di più. La consapevolezza che quello che è stato potrà esserci ancora. E che il tempo delle primavere non è ancora declinato nel buio dell’inverno di una generazione che non vuole arrendersi. Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autore Mario Sei e dell’editore Agenzia X pubblichiamo un estratto del libro Message in a bottle.
Le mani sono la mia ossessione.
Lamia, 24 anni
È dagli anni del liceo che vorrei scrivere un libro per raccontare la storia della mia vita. Ci continuo a pensare ancora, anche se forse non lo farò mai. A volte, quando sono sola a casa la sera, mi capita anche di annotare dei ricordi o dei fatti, dicendomi che un giorno, se finalmente la storia prenderà un altro corso, mi saranno utili. Lo strano è che ora, quando annoto queste cose, le penso e le scrivo in italiano e non in arabo.
La cosa di cui sono assolutamente certa è il titolo. Se mai scriverò la mia storia, si intitolerà La mano. Nelle mie mani è davvero contenuta tutta la mia vita. Basta guardarle del resto: non sono mani da donna, ho le dita e le unghie come quelle di un uomo, e questo perché lavorando fin da piccola nei campi si sono indurite e ingrossate. Davanti agli altri ho istintivamente la tendenza a nasconderle, è diventato un po’ un complesso, e d’altra parte diversi ragazzi mi hanno detto che di viso e di corpo sono molto carina ma che ho delle brutte mani. Se le nascondo, non è però solo perché sono grandi e brutte. Ho anche due dita un po’ deformate: in una, l’unghia non cresce più e nell’altra, che è storta, c’è una lunga cicatrice. Se le vedono, spesso le persone mi chiedono come mi sono ferita, e a me non piace dover raccontare ogni volta.
In queste due dita ci sono i segni di due fatti tragici che hanno marcato e che un po’ riassumono la mia vita. L’unghia me l’ha strappata mio padre quando avevo 10 anni picchiandomi con una cinghia e da allora non è più ricresciuta. Mi ricordo che il dito ha sanguinato per giorni e che nessuno mi ha portato da un dottore. Il dito storto è invece così da quando avevo 20 anni: durante un’estate lavoravo in una fabbrica e me lo sono quasi tranciato con una macchina; in ospedale sono riusciti a ricucirlo ma è rimasto storto e non riesco a piegarlo bene.
Anche questa deformazione è stata comunque causata da un uomo. Nella fabbrica, infatti, c’era anche il fratello del marito di mia zia che voleva sposarmi a tutti i costi e non smetteva di importunarmi. Un giorno mi ha toccata e io gli ho dato uno schiaffo ma lui me l’ha restituito molto più forte. Per non lavorare più con lui ho chiesto di cambiare turno dal pomeriggio alla mattina. Il giorno dopo ero ancora sconvolta, non avevo dormito tutta la notte, e nel nuovo turno di mattina mi misero su una macchina che non conoscevo: è così che mi sono tagliata il dito. Lavoravo in nero e quindi dopo l’incidente persi anche il posto, e il padrone mi pagò persino in ritardo.
Nelle mie mani c’è davvero scritta la storia della mia vita: ci sono le mie origini e ci sono le cicatrici che mi hanno lasciato degli uomini. In realtà tutto quello che faccio è una specie di guerra che combatto contro le mie mani. Anche gli sforzi che ho fatto per laurearmi e continuare a studiare, nonostante grandi difficoltà, sono stati un modo per vendicarmi delle mie mani, per avere una rivincita contro la mia condizione e anche contro mio padre, che voleva mandarmi subito a lavorare per aiutare la famiglia. Mi diceva che era mio dovere, mentre lui si è sempre fatto mantenere da mia madre e passa il suo tempo al caffè a giocare a carte. Un’estate, mi ricordo che è stato prima di cominciare il liceo, ha persino rubato tutti i soldi che avevo guadagnato raccogliendo peperoni durante le vacanze e che avevo dato a mia madre da tenere. Per aiutarmi a comprare qualche vestito e i libri per la scuola, mia madre è stata costretta a chiedere dei soldi in prestito. Lei ha sempre cercato di sostenermi, ma quello che guadagnava lavorando nei campi serviva appena a sfamare la famiglia e quindi, fin da piccola, per pagarmi gli studi lavoravo tutta l’estate. Come insegnamento, mia madre mi ripeteva sempre un proverbio tunisino che tradotto in italiano dice all’incirca questo: “Se vuoi fare la tua vita, devi far tacere il tuo cuore”.
Ho studiato senza nessun aiuto, anche perché oltre a essere poveri, i miei genitori sono entrambi analfabeti e non potevano seguirmi in alcun modo. È stata molto dura, ma sono arrivata fino al master di Letteratura e civiltà italiana con buoni risultati e sono molto fiera di quello che sono riuscita a fare. Non è certo per caso, d’altra parte, se sono l’unica ragazza della mia regione, che è una zona davvero poverissima, a essere arrivata fino all’università. Per finire il master mi manca solo la tesi finale, ma è da un anno che sono bloccata e non trovo gli stimoli per scrivere. Il tempo in realtà non mi manca perché lavoro solo mezza giornata in un’agenzia di traduzioni nel centro di Tunisi. Non guadagno molto e non ho un contratto in regola, ma almeno sono indipendente e riesco a pagare l’affitto di un piccolo appartamento che condivido con un’amica. Sono soprattutto contenta di non essere costretta, come le mie vecchie compagne delle elementari, a fare l’operaia in una fabbrica o a restare chiusa in casa ad aspettare un marito. La cosa che mi rende comunque più felice è l’aver potuto lasciare per sempre la zona in cui sono nata, che detesto con tutto il cuore e in cui ormai vado solo per un giorno o due una volta al mese per vedere mia madre e i miei due fratelli, uno di 18 e l’altro di 15 anni. Ho anche due sorelle, una più grande che vive da sola a Sousse, dove lavora in una fabbrica, e una che è ancora al liceo e vive con i nonni materni fin da quando era bambina.
Sono nata in una piccolissima frazione di campagna nella provincia di Kerouan, ma che in realtà è molto più vicina a Sousse, a circa quindici chilometri dalla costa e a una trentina dalla cittadina di Enfidha, dove hanno costruito il nuovo aeroporto internazionale. Non si può nemmeno dire che sia un vero paese, in realtà è un posto isolato con una decina di case sparse e piuttosto lontane l’una dall’altra. Ancora adesso, per arrivare a casa dei miei genitori, dalla strada provinciale bisogna fare quattro-cinque chilometri di pista che in inverno, con la pioggia, diventa un fiume di fango. Quando andavo alle elementari, con gli altri bambini della zona, facevamo questo pezzo a piedi e per non riempirci di fango ci toglievamo le scarpe e mettevamo dei sacchetti di plastica. In casa non c’era il bagno e non avevamo acqua corrente: ci lavavamo con secchi d’acqua che prendevamo dal pozzo di un vicino. Dormivamo tutti in un’unica stanza, su dei materassi che sistemavamo la notte per poi ammonticchiarli contro le pareti ogni mattina. La casa è rimasta così fino a tre anni fa e sono stata io, con i soldi guadagnati in un’azienda italiana che mi pagava molto bene, a far costruire un bagno, un’altra stanza e una vera cucina. Prima non c’era nemmeno quella e si cucinava all’aperto, in uno spazio nel retro della casa coperto da una tettoia. In quel periodo ero molto ottimista perché oltre ad avere un buono stipendio, il direttore italiano era gentile e mi apprezzava molto, ma purtroppo, dopo pochi mesi, l’azienda ha chiuso e così mi sono ritrovata di nuovo disoccupata e senza soldi. Per i lavori in casa avevo speso tutti i miei risparmi, ma non sono pentita, lo rifarei ancora; l’ho fatto pensando unicamente a mia madre, per renderle la vita un po’ meno difficile. Lei dice che io sono la sua unica fortuna e spera che io possa trovare un buon lavoro per permetterle di smettere di lavorare o almeno per aiutarla quando sarà vecchia.
Questa cosa la sento come un grande peso, anche perché so che nessuno dei miei fratelli si occuperà di lei, che lavora con un contratto solo da pochi anni e avrà una pensione da miseria. Come tante altre donne della sua condizione, si è fidanzata che era ancora quasi bambina, aveva solo 13 anni, e si è sposata a 17, quando è nata mia sorella maggiore. Da allora ha sempre lavorato nei campi, ma sempre in nero ed è solo da quattro anni che, grazie a un conoscente, è stata regolarmente assunta in un ristorante a Infidha. Oltre a me, solo mia sorella maggiore lavora come operaia in una fabbrica, ma quello che guadagna le basta appena per mantenersi e non penso proprio che riuscirà mai a migliorare la sua situazione. I miei due fratelli, che amo molto, hanno entrambi abbandonato gli studi e rifiutano di lavorare per degli stipendi da fame. Non fanno niente tutto il giorno e vivono male: sono incattiviti, odiano tutto e detestano mio padre, con cui litigano in continuazione. Non so come aiutarli e sono molto preoccupata perché ho capito che vogliono imbarcarsi come clandestini. Per loro sarebbe anche piuttosto facile perché qualcuno della famiglia fa da intermediario e per ogni imbarco ha un passaggio gratis. Un mio cugino è partito così ed è riuscito ad arrivare a Bolzano, dove vive una sua zia, ma pochi giorni dopo sono morte in mare venti persone. Anche pagando, il viaggio non è molto caro, costa circa 1.000 euro, e se davvero vogliono, possono riuscire a procurarsi la somma. Ho paura non solo per la loro vita, ma perché temo che anche se riuscissero ad arrivare, con molta probabilità finiranno per mettersi in brutte situazioni. Quando sono a Tunisi, non penso tanto alla mia famiglia, e poi nessuno mi cerca mai, sono sempre io a chiamare. Ogni volta che torno a casa provo però un forte senso di angoscia: vedo i miei fratelli in questo stato e vedo mia madre sempre succube di mio padre, che la picchia e che continua a rubarle i soldi. Inoltre la zona è ancora più triste di quando ero piccola, prima c’erano almeno campi coltivati, era una regione che produceva soprattutto pomodori, peperoni e olive, ma adesso la terra è diventata arida e crescono solo fichi d’india.
L’atteggiamento dei miei fratelli non mi piace e spesso litighiamo, ma non riesco a giudicarli. Abbiamo tutti vissuto un’infanzia e un’adolescenza difficile, però capisco che per loro è ancora più dura, primo perché per un ragazzo è sempre più complicato che per una ragazza non avere mai un soldo in tasca e poi perché adesso il contrasto tra chi ha dei mezzi e chi vive nella miseria è molto più pesante da accettare. Quando ero bambina io, non c’erano ancora i cellulari e in casa non avevamo né telefono né televisione. Il mare, che è solo a pochi chilometri da casa, l’ho visto per la prima volta a 15 anni perché i miei non ci portavano mai da nessuna parte. Nella mia regione eravamo però in tanti a vivere in quelle condizioni e quindi, fino alle medie, non è stato così insopportabile. La vera tragedia è cominciata con il liceo e questo fin dal primo giorno di scuola, che per me è stato uno dei momenti più terribili della mia vita. Non potrò mia dimenticarlo e quando ci penso, rivivo ancora quella sofferenza e l’odio che sentii contro mio padre. Per frequentare il liceo a Infidha non era possibile fare avanti e indietro tutti i giorni e bisognava quindi farsi assegnare un posto in un pensionato per studenti. Ero molto felice di cominciare il liceo, ma quando mi presentai al pensionato, il direttore non mi ammise perché mio padre non aveva pagato l’iscrizione. Ero morta di vergogna e mi sono ritrovata da sola in mezzo alla strada, senza soldi, senza sapere cosa fare e senza poter chiamare nessuno, dato che all’epoca i cellulari non esistevano. Disperata, mi ero seduta su una panchina a piangere; per fortuna, un uomo che passava in macchina si fermò per chiedermi se avevo bisogno di aiuto e poi pagò un taxi per farmi portare sulla strada di casa. Arrivai a casa con il buio alle nove di sera piena di rabbia, ma a mio padre non gliene importava nulla. È stata mia madre a preoccuparsi e a fare una domanda d’iscrizione per famiglie senza reddito, che finalmente, dopo un mese, venne accettata.
Quando sono tornata a scuola, non solo avevo perso un mese di lezioni, ma tutti sapevano la mia storia e non so nemmeno io dove ho trovato la forza per continuare. Quell’anno ho avuto dei voti bassissimi, ma sono comunque riuscita a non farmi bocciare. L’anno dopo, prima dell’estate, mi sono ammalata, avevo una forte irritazione della pelle provocata dal sole, ed era quindi impossibile lavorare nei campi come avevo sempre fatto durante le vacanze. Non potevo però permettermi di non lavorare e così, cercando, trovai un’azienda tessile nella provincia di Sousse che assumeva operai per brevi periodi. L’azienda era molto vicina al paese dove vivono i miei nonni materni e decisi quindi di andare a stare da loro, che però avevo visto raramente e conoscevo poco. Quei tre mesi mi sono sembrati anni perché anche se contribuivo con un terzo del mio stipendio, mi facevano pesare tutto. Il lavoro era molto faticoso e a casa non mi sentivo mai a mio agio, mi rimproveravano anche di consumare troppa acqua per lavarmi, e così, dopo aver sudato tutto il giorno, non avevo nemmeno il coraggio di farmi la doccia.
Dopo le terribili esperienze vissute in quei primi due anni di liceo, entrai in una profonda depressione: mi sentivo sola, vedevo tutto nero e mi sembrava che per me non ci fosse alcuna speranza; avevo persino deciso di abbandonare gli studi. È stato in quel periodo che, seguendo i consigli di una mia amica, ho cominciato ad avvicinarmi alla religione e a portare il velo. All’inizio non ero molto convinta che Dio mi avrebbe aiutata, però piano piano, facendo le mie preghiere giornaliere, sono riuscita effettivamente a trovare una certa calma e serenità. Per un certo periodo ho messo solo il velo, vestendomi normalmente, ma poi, sempre più convinta, ho cominciato a vestirmi in modo tradizionale con abiti lunghi. Avere fede mi ha davvero aiutato a superare la depressione e anche se la mia condizione è rimasta la stessa, ho passato gli altri anni del liceo senza difficoltà, arrivando alla maturità con ottimi voti. Andavo bene soprattutto in italiano e su consiglio della mia professoressa, che stimavo molto, mi sono iscritta alla facoltà di Lingue della Manouba, dove mi sono laureata e sono stata persino tra le migliori del mio corso.
Il velo l’ho portato fino a un anno e mezzo fa e poi ho deciso di non velarmi più. L’ho fatto soprattutto per accontentare un ragazzo conosciuto in università con cui sono uscita per circa due anni e che ho amato tantissimo. Diceva di amarmi anche lui, ma non gli piaceva il mio modo di vestire, voleva una ragazza moderna e alla moda. Oltre che per lui, l’ho tolto anche perché ogni volta che mi presentavo per un lavoro a Tunisi, mi dicevano quasi tutti che erano interessati al mio curriculum, ma che cercavano ragazze “presentabili” e non velate. Dopo tanti anni, non è stata una decisione facile, e i primi giorni, quando uscivo per strada, avevo la sensazione di essere nuda. Ora però sto bene così. Le mie convinzioni non sono cambiate e continuo a fare ogni giorno le mie preghiere, eppure molte persone che credevo amiche non mi parlano più. Mia madre conosce e rispetta la mia decisione, ma quando torno a casa, per evitare le maldicenze dei vicini che la farebbero soffrire, mi rimetto il velo e i vestiti lunghi.
La storia con questo ragazzo è stata la prima della mia vita ed è finita perché sono stata io a rompere. Pensavo di aver trovato l’amore e per un po’ ho davvero creduto che avremmo potuto costruirci una vita insieme, ma poi ho capito che si comportava come mio padre e non sono più riuscita a sopportarlo. Forse sono stata ingenua e fin dall’inizio non avrei dovuto perdonargli certe cose, ma mi illudevo che potesse cambiare. Mi ha schiaffeggiata diverse volte per futili motivi e un giorno mi ha preso a schiaffi persino in università, umiliandomi davanti a tutti. Ha 27 anni e non ha mai lavorato un giorno in tutta la sua vita, si è sempre fatto mantenere dai suoi genitori. Si giustificava dicendo che non avrebbe mai accettato un lavoro inadeguato al suo livello di studio, e così, quando stavamo insieme, ero sempre io a pagare tutto, oppure si faceva prestare dei soldi che non mi restituiva.
A causa del velo, mi accusava di avere una mentalità chiusa, ma in realtà è lui a essere profondamente retrogrado, soprattutto per le sue idee sulle donne. Io non credo che la verginità sia un valore e se sono ancora vergine, è solo perché non ho ancora trovato un uomo che mi ispiri fiducia. Per lui, invece, come per la maggior parte degli uomini tunisini, una donna seria non ha il diritto di avere rapporti prima del matrimonio e quindi, con la scusa del rispetto che diceva di avere per me, ha sempre preteso di ottenere il suo piacere senza mai pensare al mio.
A cominciare da mio padre, con gli uomini ho sempre avuto sfortuna e sono diventata molto diffidente. Può forse sembrare esagerato ma vivo con la sensazione che dagli uomini devo proteggermi e difendermi. Quattro anni fa, prima della storia con il ragazzo dell’università, sono stata sul punto di sposarmi, ma poi ho capito che la mia vita sarebbe stata un inferno e ho deciso di annullare tutto. Come tante ragazze che vogliono partire e cercano di farlo attraverso il matrimonio, tramite un’amica ero entrata in contatto con un tunisino che vive in Francia. Per un paio di mesi ci siamo scambiati messaggi su Facebook e ci siamo visti tre volte a Tunisi per poche ore. Nell’ultimo viaggio mi aveva presentato alla famiglia e avevamo fissato la data del fidanzamento. Tra di noi non c’era certo amore e in realtà non ci conoscevamo quasi, eppure lui già pretendeva di controllare la mia vita: voleva che smettessi di studiare, dicendo che comunque non sarebbe servito a niente, e dalla Francia mi faceva assurde scenate di gelosia. Ho voglia di formare una famiglia e avere dei bambini, ma ora so che non mi sposerò mai per interesse, lo farò solo se riuscirò a trovare un uomo che amo e che mi rispetta.
La mia vita è stata dura, ma superare tante difficoltà mi ha fatto diventare forte: ho acquisito fiducia in me stessa e nelle mie capacità. La situazione in Tunisia però è tragica e so che le capacità non bastano. Due mesi fa ho passato il concorso nazionale per l’insegnamento e sono arrivata quinta, ma non è servito a niente: posti non ce ne sono e il ministero non assume. All’idea di diventare professoressa, che è quello che sognavo di fare, ci ho ormai rinunciato, ma non sono pessimista. Lavorando all’agenzia di traduzione, mi occupo anche del rapporto con i clienti e mi capita spesso di incontrare imprenditori o funzionari di ambasciate europee. Grazie alle persone che ho conosciuto, penso di avere qualche possibilità di ottenere un visto di lavoro per l’Europa, anche perché parlo e scrivo bene quattro lingue: l’arabo, il francese, l’italiano e l’inglese. È forse qualcosa di più concreto di una semplice speranza, ma per scaramanzia preferisco non parlarne troppo. Se davvero riuscirò a partire, sarà anche questa una vicenda che racconterò nel libro sulla mia vita, che mi piacerebbe tanto, un giorno, poter scrivere.