È una verità che riconosce chi viaggia, che scopre chi è curioso, che vive chi sperimenta. L’integrazione e l’inclusione passano per una padella, prima ancora che attraverso uno sguardo. Matteo Matteini, manager di 54 anni, originario di Rimini, esperto di sviluppo ed economia sociale, è il fondatore di una serie di startup a impatto sociale come Amore & Sapore, attiva nella provincia di Milano. Un temporary restaurant dedicato alla cultura gastronomica collaborativa, grazie ad una rete attiva di cuochi non professionisti provenienti da diversi Paesi del globo.

Il concetto di raccontare un Paese partendo dai suoi piatti non è nuova…

«È vero. Alla base di Amore & Sapore c’è un’idea semplice, creare un lungo di incontro dedicato che da una parte metta a frutto una serie di capacità, in questo caso di talentuose donne originarie di Paesi extraeuropei.

Non stiamo parlando dell’ennesimo ristorante etnico di Milano. Al centro c’è la volontà di aiutare le persone con background migratorio a sviluppare il proprio potenziale e stimolare la rigenerazione di comunità aperte, inclusive ed integrate

Come è nata, questa iniziativa?

«A pensarci bene, potrei dire che tutto parte da ragioni egoistiche. Oltre a lavorare come project manager per il Comune di Milano su due progetti dedicati all’inserimento lavorativo di migranti e richiedenti asilo, faccio parte della onlus Vitality, creata nel 2012 insieme ad altri due soci. Una realtà nata per dimostrare quello in cui ho sempre creduto: la diversità fa bene alle comunità e fa crescere le società. Sono cresciuto e vissuto in mezzo a parenti e amici di provenienza e cultura molto diversa e so perfettamente quanto questo possa essere arricchente».

Qual è la storia della sua famiglia?

«Mia nonna materna è del Congo, mio nonno materno è ebreo, nato sull’isola di Rodi. I miei nonni paterni sono italiani. Ho cugini africani, afroeruopei, italiani, afroamericani. Se contiamo le seconde o terze generazioni, i più vicini sono sparsi tra Italia, Francia, Belgio e Inghilterra. Questo aspetto della mia vita mi ha permesso, fin da bambino, di confrontarmi in modo molto diretto con il tema della diversità culturale. Ricordo bene come i miei cugini francesi e belgi mi facessero notare come nei loro Paesi la loro “diversità visibile” fosse normale nei loro Paesi, e rara in Italia».

Cosa intendevano dire?

Mia madre è stata la prima persona nera nella città dove sono nato, Rimini. All’inizio nei suoi confronti c’è stata una grande curiosità, poi una grande simpatia, poi man mano che l’immigrazione è cresciuta una sorta di diffidenza. Le stesse persone, le stese comunità, hanno cambiato atteggiamento nei confronti della medesima persona. A lungo ho pensato di essere eccessivamente sensibile io, invece nel tempo siamo arrivati al clima attuale, schizofrenico, venato di xenofobia latente.

Nel frattempo, però, ha creato una onlus, Vitality.

«Vitality nasce nel 2012 da un’idea mia e di altri due fondatori, mia sorella Isabella Matteini e Adam Clark. Era un periodo molto diverso da quello presente, il dibattito sull’immigrazione era meno capzioso. Ci sembrava interessante capire come delle persone che erano state attratte dal nostro Paese, potessero garantire risorse e rivitalizzazione delle loro comunità. Abbiamo iniziato ad incontrare un gran numero di persone, avviando sportelli di ascolto e di avvio al lavoro, ma anche eventi, corsi di formazione, ricerche e analisi. L’idea è diventata sempre più quella di costruire spazi comuni piuttosto che erogare servizi». 

Cosa significa?

«In quel contesto, ci siamo interfacciati spesso con donne straniere, che avevano in genere più difficoltà rispetto agli uomini a conciliare la loro vita domestica con una attività lavorativa. Molte di loro erano cuoche provette ed erano in grado di parlarci di ingredienti mai sentiti, svelando tecniche e trucchi, talvolta usati nei loro Paesi fin dalla notte dei tempi».

E se c’è una cosa che Milano aspettava, che accoglie a braccia aperte, è la proposta di assaggiare qualcosa di nuovo in una chiave inedita.

Come funzionano le vostre serate?

«La sede è un temporary cooking a Dergano, a Milano. Ogni serata ha per tema un Paese o una cultura. Ci sono due chef coach, Adam Clarck e Tecla Ballardini, che seguono le nostre cuoche e insieme a loro progettano la cena, che integra sempre un assaggio culturale più ampio: musica, arti marziali, danza, cinema. Non tutte le nostre cuoche ovviamente sono originarie del Paese scelto per il tema, ma seguono le indicazioni e le tecniche che arrivano dalla persona che lo è, ed è straordinariamente arricchente, anche per loro».

Di quante persone parliamo?

«Sono serate per un massimo di una cinquantina di persone, al costo totale di 30 euro a persona. Gli ospiti si prenotano online e devo dire che è già un successo. Circa un quarto dei clienti torna agli eventi successivi, aspettano tutti con ansia la data successiva, per scoprire qual è il Paese di turno».

Specialità da segnalare?

«Ci sono dei piatti che pochi avevano assaggiato prima, a Milano, come i Pastel Sawur, dall’Indonesia, raviolini fritti ripieni di verdura. Oppure, dal Messico, il pollo in salsa Mole, con cioccolato, spezie e mandorle e peperoncino. Dal Senegal abbiamo portato il Mafé, vitello in salsa di pomodoro, arachidi e peperoncino. E i dolcissimi Brigadeiros, dal Brasile, a base di cioccolata, cocco e latte condensato».

Una volta sparecchiati i tavoli, cosa resta?

«Il fatto di aver fatto incontrare persone con storie e origini diverse senza dover puntare su storie di svantaggio o disagio, ma dimostrandone il valore e la ricchezza anche in termini produttivi. Non puntiamo al buonismo né alla raccolta fondi, ma a fare qualcosa di fruttuoso. Puntiamo anche sul canale dei catering, per eventi pubblici e privati. E poi con noi si può prenotare un vero e proprio personal chef per una cena etnica a domicilio. Sul lungo periodo, poi, ci piacerebbe avviare anche un punto vendita di vendita gastronomica».