La globalizzazione di merci e di capitali è in stallo. Dopo una corsa trentennale, il commercio internazionale ha raggiunto il suo apice negli anni Duemila e in pratica non si è più ripresa dalla crisi del 2008. Quella che ha continuato ad andare avanti è invece la globalizzazione delle persone, oltre che dei bit e dell’economia digitale.

Questo il succo di For better or worse, has globalization peaked? (‘Nel bene e nel male, la globalizzazione ha raggiunto un picco?’), il report che Catherine Mann, ex chief economist dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e oggi capo economista globale di Citigroup, una delle istituzioni finanziarie private più prestigiose, ha presentato il mese scorso.

Le cause che hanno portato al rallentamento dell’integrazione commerciale e finanziaria nel mondo non sono nuove: tra i principali sospettati la ricerca segnala la crescente localizzazione dei servizi, l’impatto dell’automazione sulla manifattura a basso costo, la domanda per una global supply chain (ovvero la catena di approvvigionamento globale) più trasparente, il contraccolpo della finanziarizzazione, lo stallo dei grandi accordi multilaterali e le politiche protezioniste europee e poi americane. Idem per le conseguenze, e in primo luogo per le disuguaglianze crescenti, che la Mann addebita come da manuale a un difetto e non a un eccesso di globalizzazione e, semmai, alla mancata redistribuzione in sede nazionale.  

Chi va contro tendenza invece è la globalizzazione delle persone: negli ultimi 20 anni, anche dopo la crisi, l’immigrazione è raddoppiata e riguarda ormai il 3% della popolazione globale.

Negli anni ’10 però gli expat si spostano soprattutto all’interno delle economie avanzate perché i “migranti” sono oggi soprattutto ingegneri, tecnici e lavoratori di reddito medio-alto. Per fare due esempi, se Germania e Regno Unito avessero bloccato l’immigrazione nel 1990, un quarto di secolo dopo, nel 2014 il loro prodotto interno avrebbe registrato rispettivamente una perdita di 155 mila euro e 175 miliardi di sterline. 

Se il contributo alla produzione e al consumo dei migranti nel Paese ospite è del tutto ovvio, per il Paese di origine il fenomeno presenterebbe secondo la Mann pur sempre luci e ombre: le rimesse (pari lo scorso anno a 700 miliardi di dollari nel mondo, dopo una flessione nel 2013-2015) contribuiscono infatti a supportare la domanda interna a casa. Il che è oggi imprescindibile ad esempio per numerose economie africane ma, d’altro canto, la “fuga di cervelli” contribuisce a minarne la produttività. In altre parole, il sistema delle rimesse permette ad una famiglia di aprire un negozio o di mandare il figlio all’università senza indebitarsi, ma non contribuisce (almeno direttamente) agli investimenti pubblici e strutturali attraverso il circuito fiscale. Secondo Citigroup questo sistema «Presenta più opportunità per il Paese ospitante che per quello di origine, là dove gli investimenti diretti (e quindi la globalizzazione dei capitali, ndr) ne creano di più a casa».