Wajahat Abbas Kazmi è un regista pakistano, arrivato in Italia da bambino. Un esempio di emancipazione e rottura con la cultura oscurantista della comunità pakistana in Italia. È stato lui, nel 2018, ad attivare una rete di donne di seconda generazione che si sono (parzialmente) esposte per chiedere la verità su Sana Cheema, la venticinquenne bresciana di origini pakistane uccisa a Gujrat dopo la ribellione a un matrimonio combinato, anche se i parenti sono stati poi assolti dal tribunale di Gujrat. Wajahat Abbas Kazmi, costretto a fidanzarsi con una sua cugina quando era adolescente, ha aspettato che i suoi genitori rientrassero in Pakistan per fare coming out sulla propria omosessualità. Nel 2018, insieme all’associazione Il Grande Colibrì (di cui è cofondatore), ha girato il documentario Allah loves equality sulla comunità LGBT in Pakistan, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

Durante la quarantena, Wajahat Abbas Kazmi è impegnato a scrivere il suo secondo libro, incentrato sul tema dei matrimoni combinati in Italia dentro alla comunità pakistana.

Da dove è nata l’idea di scrivere un libro sui matrimoni combinati nella comunità italopakistana?

«L’idea è nata due anni fa dopo l’uccisione di Sana Cheema, che era stata portata in Pakistan perché si era opposta ad un matrimonio combinato».

Le domande da parte del popolo italiano erano così tante che in un primo momento lanciai la campagna “Verità per Sana” e poi decisi di scrivere il libro per parlare di matrimoni forzati e delitti d’onore nella comunità pakistana in Italia e nel resto d’Europa.

Qual è l’atteggiamento dei giovani pakistani italiani rispetto ai matrimoni forzati?

«È una situazione complicata. I giovani, come Sana Cheema e Hina Saleem (l’altra ragazza italopakistana assassinata nel 2006 dal padre perché voleva vivere all’occidentale, ndr), sono confusi. Non sono cresciuti in Pakistan e apprendono solo ciò che gli viene trasmesso dai genitori, spesso migranti economici che provengono da villaggi rurali. Non conoscono la realtà del Pakistan moderno delle grandi città, dove le donne vanno in giro scoperte e c’è una maggiore apertura mentale. Sanno solo quello che gli trasmettono i genitori e, paradossalmente, diventano più radicali di quelli che vivono in Pakistan. Perciò quasi sempre accettano i matrimoni combinati».

A due anni dall’uccisione di Sana Cheema cosa è cambiato?

Niente. Non c’è un movimento delle donne pakistane italiane. Ho raccolto testimonianze nel mio libro da alcune di loro, ma sono poche, non esiste ancora una coscienza collettiva. Siamo proprio all’inizio, e credo che ci vorranno almeno due generazioni per cambiare la mentalità della comunità. Spero che con questo libro qualcosa cambi.

Il suo docu-film Allah loves equality racconta la comunità LGBT pakistana. Cosa vuol dire essere omosessuale in Pakistan?

«Innanzitutto si deve distinguere fra i transessuali e gli omosessuali.  I transessuali, o terzo genere, sono una categoria da sempre esistente sia in Pakistan che in India e, per quanto discriminati, sono in qualche modo accettati come parte integrante della società. C’è la credenza che le persone del terzo sesso nascano così mentre gli omosessuali lo diventino, o comunque lo scelgano».

Può spiegarci meglio?

I transessuali hanno diversi ruoli all’interno della società pakistana e sono una sorta di mediatori durante la preparazione dei matrimoni combinati. Spesso i fidanzati non possono incontrarsi prima delle nozze e sono loro a incontrare i futuri sposi per riferire i messaggi che si vogliono scambiare.

«Si crede inoltre che portino fortuna e per questo motivo ricevono delle donazioni. Le ONG che in Pakistan lavorano per i diritti degli omosessuali lo fanno clandestinamente, nascondendosi dietro le sigle di associazioni di transessuali perché il terzo sesso è l’unica categoria della comunità LGBT che viene legalmente accettata».

Quindi l’omosessualità è un reato in Pakistan?

«Sì, in teoria rischiano una pena che va dai tre mesi ai dieci anni di carcere, ma nessuno è mai stato condannato né arrestato per questo reato. È una legge che in pratica non viene applicata. Tuttavia la discriminazione verso gli omosessuali è molto diffusa: i momenti di socializzazione e condivisione tra loro sono pochi e tendenzialmente riservati a chi appartiene all’alta società».

Ha corso dei rischi mentre girava il documentario?

«Solo una volta, durante una protesta di fondamentalisti che manifestavano contro l’abolizione della legge sulla blasfemia all’interno della vecchia città di Lahore. Abbiamo fermato le riprese perché eravamo con una ragazza trans e volevamo evitare la folla già inferocita. In linea generale abbiamo preferito girare in ambienti interni. Negli esterni dovevamo fare attenzione a non attirare attenzione».