Si può fare satira su una tragedia immane come quella dei migranti? Assolutamente sì. Ce lo hanno dimostrato i giornalisti francesi di Charlie Hebdo che continuarono a farla anche dopo l’attentato del 7 gennaio 2015 quando dodici di loro vennero uccisi a colpi di kalashnikov. Nei giorni e nelle settimane successive i disegnatori superstiti continuarono a pubblicare vignette sarcastiche su Maometto, sugli attentatori e pure sul loro collega George Wolinski, immaginato in Paradiso a intrattenere angeli di sesso femminile. Dunque ci fa sorridere la foto che gira di questi tempi — ma è solo l’ultima versione di tante altre simili — in cui si vedono tre belle ragazze, probabilmente modelle, dirette a un casting, con la scritta: «Ospita anche tu una rifugiata ucraina».

Una vignetta sessista che irride i profughi che non ce la fanno e muoiono nel Mediterraneo. Ogni volta che viene pubblicata sui social da influencer di sinistra o di destra, i “like” si contano a mazzi. Ma il problema non è questo. Non è di chi ha avuto l’idea di questo geniale montaggio. È di chi la guarda. Per soffermarci a pensare a questo esodo che coinvolgerà nei prossimi anni 35 milioni di persone secondo l’Onu, abbiamo bisogno del piccolo Alan con la sua maglietta rossa e i pantaloncini blu, morto annegato sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. O della foto di tre avvenenti ragazze che probabilmente non vengono nemmeno dall’Ucraina, il Paese indipendente da pochi anni e dilaniato da secessioni filorusse con annesse occupazioni militari. 

A guardarle bene le due foto hanno lo stesso significato. La prima ci fa piangere perché immortala un bambino. La seconda ci fa sorridere perché ironizza sulla disponibilità all’accoglienza, nel caso, dei maschi occidentali. Tra i tanti commenti alla foto su una pagina Facebook di una persona che l’aveva pubblicata, una ragazza ha scritto: «A quando una foto di uomini ucraini palestrati?». Senza forse saperlo questa ragazza ha centrato il problema. Alla fine anche su migranti e profughi si fanno classifiche e preferenze.

Se al posto del piccolo Alan su quella spiaggia ci fosse stato un grande Alan non se ne sarebbe accorto nessuno. Se un richiedente asilo scende da un barcone avvolto in una coperta termica — le abbiamo viste anche alle sfilate di moda, ne parleremo un’altra volta — ha tutta la nostra comprensione. Se scende da un aereo quasi non ce ne accorgiamo.

Una volta facevano paura gli albanesi. Oggi libici e nigeriani. È come se ogni volta avessimo bisogno di un codice interpretativo semplice per accendere qualche neurone. 

Nel pieno della tempesta emotiva dell’esodo dalla Siria di migliaia di profughi, Banksy disegnò vicino al campo di Calais in Francia l’immagine del fondatore della Apple Steve Jobs, mentre attraversava un confine con un sacco in spalla. Suo padre era un profugo siriano. Steve Jobs è americano grazie allo ius soli. In realtà all’anagrafe si chiamava Abdul Latif Jandali. Stare dalla parte del piccolo Alan, di tre modelle ucraine o di Steve Jobs sono buoni tutti.

A noi piace di più Abdul Latif Jandali. Non sappiamo chi sia tra i tanti stranieri e nuovi italiani che raccontiamo qui a NuoveRadici.world. Il nuovo Steve Jobs potrebbe essere tra loro. Oppure, per una di quelle sliding door che ci mette davanti la vita, quest’altro Abdul Latif Jandali diventerà idraulico, operaio o giardiniere. Ha comunque gli stessi diritti del fondatore di Apple. Avrà sicuramente qualcosa da insegnarci come tutti anche se non finirà mai in una foto iconica. Destinata a commuoverci o a strapparci un sorriso.