La sua è una storia come tante altre o forse no, è la figlia più piccola di una famiglia con tre figlie dove vige il matriarcato. Hilda Ramirez, 28 anni, nata in Ecuador è arrivata in Italia a sette anni. È laureata in Scienze della comunicazione ed è webmaster.

Cosa ha portato la sua famiglia in Italia?

«Principalmente per il mio stato di salute: ho avuto la meningite. Al mio problema personale si aggiungeva quello economico dell’Ecuador: una grave inflazione. I miei genitori, entrambi insegnanti, si sono subito rimboccati le maniche e hanno fatto mestieri non appropriati alle loro competenze e conoscenze». 

Qual è il suo primo ricordo in Italia e l’ultimo in Ecuador?

«L’ultimo ricordo in Ecuador, ad essere sincera, non riesco a focalizzarlo. Il primissimo in Italia invece è quello di quando arrivai a Genova e sentii subito tantissimo freddo: sentivo parlare in italiano e pensai che non sarei mai riuscita ad impararlo. Il primo giorno in una scuola italiana è una memoria che custodisco con nostalgia: ero l’unica bambina “abbronzata” e ai miei compagni di classe interessava solo capire come si pronunciasse il mio nome».

Quali studi ha fatto?

«Volevo diventare un’ostetrica, ho studiato per il test d’ingresso che ho superato ma i posti erano pochi e, dovendo scegliere velocemente cosa fare per non perdere il permesso di soggiorno, mi sono iscritta un po’ alla cieca a Scienze della comunicazione. Scoprendo poi di aver fatto la scelta migliore».

Mi ha raccontato che in Ecuador la chiamavano “l’italiana”, cosa ha significato per lei essere sospesa fra due culture?

«Non mi sono mai sentita diversa dai miei coetanei fino a quando, durante l’estate dei miei tredici anni, tornai in Ecuador per le vacanze. I miei parenti mi chiamavano “l’italiana” eppure in Italia ero la bambina ecuadoriana figlia di immigrati. Tornai con “la pulce nell’orecchio”, come si usa dire, gli anni però continuarono a passare ed io continuai a studiare. Non mi ero mai posta problemi di identità fino a quando non mi hanno definita, appunto, “l’italiana” ma più che sospesa tra due culture ho la sensazione di essere sorretta da due culture che mi danno una ricchezza enorme, due lingue, due gastronomie, due letterature e potrei continuare…».

Lo studio quanto l’ha aiutata a decidere chi essere e a spingerla verso l’associazionismo?

«Lo studio mi ha fatto capire che non basta comunicare ma si deve comunicare bene: sono specializzata in comunicazione digitale e nella realizzazione di siti web, due strumenti che viaggiano su binari paralleli con l’associazionismo. Durante l’università ho incontrato sulla mia strada l’Associazione Multietnica per la Cooperazione allo Sviluppo Umano, di cui oggi sono presidente e grazie alla quale nel 2014 ho incontrato i ragazzi che avrebbero poi fondato il CoNNGI, di cui oggi ricopro il ruolo di consigliere nel consiglio direttivo. Associazione Multietnica è stata il passe-partout che mi ha fatto conoscere un mondo associativo ricco di stimoli e mi ha aiutato a trovare risposte agli interrogativi identitari che mi ero posta. Sono anche membro del movimento Italiani Senza Cittadinanza: l’attivismo e l’associazionismo sono parte integrante della mia vita, c’è una forza interiore che mi spinge a continuare e a coinvolgere sempre più giovani che come me vogliono far sentire la propria voce».

Si è sposata e ha un bimbo, ci racconta della sua famiglia?

«Il 6 aprile 2018, per il 10° anniversario dal nostro primo incontro, Darwin mi ha chiesto di sposarlo: eravamo a Parigi e una settimana dopo ho scoperto di essere incinta di Alejandro. Darwin ha origini ecuadoriane come me, arrivato anche lui in età scolare e si dedica all’impegno sociale come me. È un ingegnere meccanico e lavora per una multinazionale in provincia di Bergamo. Con l’arrivo di Alejandro sono cambiate le nostre priorità e si è rafforzata la voglia di continuare a fare attività sociale. Mentre aspettavo nostro figlio, ho partecipato alla realizzazione del cortometraggio Io Sono Rosa Parks. Mi ha segnato sotto diversi aspetti. In primis il senso di appartenenza e amicizia che si è instaurato con i ragazzi del movimento Italiani Senza Cittadinanza perché stavamo dando voce a più di 800 mila bambini e ragazzi nati o cresciuti in Italia. Ero al quinto mese di gravidanza e tutte le emozioni erano amplificate e perché sentivo che stavo facendo qualcosa di importante». 

Vissuta a Genova e adesso a Bergamo, ma quanto di Hilda Ramirez è genovese?

«Sto a Genova quanto i pinoli stanno al pesto, quest’anno saranno passati quattro anni dal mio trasferimento. Quando parlo con i bergamaschi ad ogni belin che pronuncio, mi chiedono stupiti che cosa stia dicendo. Mi sono trasferita per Darwin, mio marito, che viveva e lavorava qui. Lui è disegnatore e progettista, ha 31 anni e per un timbro mancato pochi giorni fa ha dovuto ricominciare l’iter per avere la cittadinanza italiana. Con la nuova legge l’avrà fra quattro anni: un incubo».

Lei ha detto: «Sono una webmaster donna e non vivo in un sottoscala». Cosa significa?

«È un espressione che uso spesso: nel mio ambito le “donne digitali” vengono messe all’angolo dai colleghi uomini. Loro pensano di riuscirci e noi, quando vogliamo, glielo facciamo credere. Sono una webmaster sì, nell’immaginario collettivo veniamo definiti “smanettoni, cervelloni” e ci associano ai nerd da sottoscala che non vedono mai la luce del sole e trascorrono la vita davanti allo schermo del pc. Ecco perché dico sono una webmaster donna e non vivo in un sottoscala».