Damir Eskerica, entrato nell’azienda italiana di design Moroso oltre dieci anni fa, ne è diventato quest’anno il nuovo Ceo, scelto da Roberto e Patrizia Moroso. Occuparsi di design, in Italia, non è questione da poco: settore d’eccellenza oltre che di prestigio per il Paese, è uno di quegli ambiti nei quali l’Italia è non solo leader, ma detta legge – e tendenza. Moroso negli ultimi anni ha scelto una strada interessante. S’è aperta all’ascolto e alla collaborazione con designer stranieri extraeuropei, s’è occupata di una linea che omaggiasse l’Africa senza alcuno spirito buonista, ha persino promosso delle installazioni (una delle quali presentata alla scorsa Biennale d’Arte di Venezia) incentrate su un tema sconosciuto alle design week milanesi: quello dei rifugiati.
Damir Eskerica, lei considera Moroso un’azienda multiculturale?
«Se per multiculturale intendiamo l’apertura a influenze, professionalità e creatività, indipendentemente dalla provenienza, direi proprio di sì. Io, per dire, ne sono l’esempio perfetto».
In che senso?
Sono stato un profugo, quindi so esattamente di cosa stiamo parlando, in questo momento storico. Quando avevo 11 anni, in pieno conflitto, io e mia madre siamo scappati da Sarajevo con l’ultimo convoglio delle Nazioni Unite. Siamo arrivati a Zagabria, da lì un nostro contatto ci ha parlato di una famiglia in un piccolo paesino del Friuli che si era offerta di ospitare dei profughi.
Come è riuscito quel bambino, profugo, a diventare Ceo di uno dei brand di design più noti al mondo?
«Con sacrificio. E impegno. Io so cosa vuol dire non potersi permette una pizza o un paio di scarpe. Ma conosco anche il valore dell’accoglienza, del dare possibilità. Mia madre era un’economista: ha dovuto cercare un lavoro in fabbrica. Siamo partiti da zero, ho sempre lavorato, ma nel frattempo ho vinto una borsa di studio, mi sono laureato in Scienze diplomatiche a Gorizia, ho continuato, sempre vincendo una borsa di studio, con un master in Relazioni internazionali a Trieste. Nel frattempo, appena laureato sono entrato in Moroso, dove sono rimasto nella sede italiana fino a 30 anni».
Successivamente mi hanno proposto di dirigere l’azienda madre a Londra, dove sono rimasto per 5 anni pieni, per poi tornare in Italia lo scorso marzo, quando mi hanno chiesto di dirigere la casa madre.
Come descriverebbe l’impegno per integrazione di Moroso?
«Direi che non è un obiettivo che abbiamo fissato su carta, ma è un pensiero, un valore dell’azienda. Ovvero, per noi è importante creare un ambiente di relazioni positive, indipendentemente dal reciproco background: in questo modo le persone si evolvono, nell’integrazione e nella comprensione reciproca, piuttosto che involversi».
Per noi è fondamentale, perché sappiamo che quanto accade all’interno di un’azienda è lo specchio di quanto poi avviene nella società intera. E noi, fin dai vertici lo dimostriamo continuamente.
In che modo?
«La mia storia parla da sé, Moroso ha investito su di me senza considerare minimamente il fatto che fossi un italiano nato all’estero. Poi posso citarle il fatto che Patrizia Moroso ha inaugurato ormai 10 anni fa la collezione M’Afrique, omaggio al continente di suo marito, l’artista senegalese Abdou Salam Gaye. Moroso è multiculturalità, lo dimostra la collaborazione con 45 designer provenienti da 35 Paesi diversi, la buona percentuale di presenze di origine straniera in azienda, anche in ruoli dirigenziali. Siamo basati in Friuli, ma siamo orientati al mondo, abbiamo una sede a Dakar, in Senegal, e aiutiamo il territorio con investimenti ma senza pubblicità, per un interesse reale».
In che modo la multiculturalità diventa un interesse “reale”, per un’azienda?
«Perché non crea distanza. C’è nel mondo imprenditoriale una forte necessità di non allontanare, ma avvicinare, per creare benessere. I prodotti di Moroso sono orientati al cosiddetto lusso inclusivo, prodotti che per forme, colori, sensazioni non allontanino ma avvicinino: per questo, credo, diverse multinazionali come Google, Microsoft o LinkedIn, ci hanno chiesto di collaborare per le loro sedi».
La necessità di essere inclusivi si riflette nell’impegno nel mondo dell’arte, ad esempio penso al progetto di Moroso con Olafur Eliasson, alla Biennale dell’Arte 2018, incentrato sul tema dei richiedenti asilo e dei rifugiati.
Quindi la multiculturalità è una precisa “strategia aziendale”, per Moroso?
«No, una strategia, non c’è. Non ci siamo seduti ad un tavolo, non è stata una forzatura. È semplicemente il modo di essere di Moroso, che in quanto azienda così è sempre stata. Al tempo stesso, agiamo così perché siamo un’azienda di design, siamo l’innovazione per eccellenza. Nel mondo dell’industria ci sono due macrocategorie: gli innovatori, che finiscono per essere trend setter, e i conservatori, che seguono. Moroso è innovativa perché non prende decisioni in base alla pura convenienza, ma trova un collegamento forte tra i propri valori e l’artigianalità, tenendo ovviamente in mente il fatturato. La multiculturalità non produce direttamente fatturato, ma l’accettazione della diversità crea benessere interno e se si vive bene si lavora bene. Un ambiente sano non solo è produttivo, ma aggiunge valore al brand – e, potenzialmente, migliora il fatturato».
In caso contrario?
«Come dicevo, le aziende hanno un ruolo sociale fondamentale. La ricaduta di una società “antisociale”, se vogliamo chiamarla così, è quella di un pericoloso effetto a catena. La paura dell’altro non ha mai fatto bene né alle società, né alle loro economie. E di conseguenza alle aziende. Chiamando a lavorare con noi designer che abbiano sensibilità diverse, lavorando con persone di origini differenti e cercando di sensibilizzare sul tema dei nuovi italiani e migranti, cerchiamo di favorire una visione inclusiva della società. E avendolo vissuto, so cosa significa essere dall’altra parte».