È arrivato o no? La domanda è lecita: malgrado la mancanza di un sistema di test e di cura efficaci, l’Africa sembra ancora relativamente risparmiata dalla pandemia. Anche laddove ci sono strutture di ricerca in grado di scoprire il Coronavirus – come l’istituto Pasteur francese o il CDC americano (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie) – pare che ancora la diffusione sia relativa, malgrado tutte le fragilità. Dovesse esplodere come nel caso delle febbri emorragiche (vedi ebola) sarebbe un disastro, un’epidemia dalla mortalità altissima, visto anche il precedente caso dell’Aids che ha trovato basse (e ha ulteriormente ridotto) le difese immunitarie di decine di milioni di africani.

Tuttavia gli esperti sono ancora prudenti: la bassa media di età delle genti africane (il 70% ha meno di 30 anni) potrebbe attenuare il quadro: molti contagi silenti, casi positivi asintomatici ma pochi casi conclamati o mortali, per poi creare problemi gravi in un secondo tempo.

Per ora è difficile stabilire quali siano le interazioni possibili del Coronavirus con le tipiche fragilità africane, come la malaria ad esempio. Quest’ultima è endemica e presente quasi ovunque: indebolisce le difese immunitarie anche quando non è mortale, come nel caso di bambini piccoli. Avremo molti decessi più in là nel tempo? O piuttosto una situazione di cronicità permanente? Il fatto che i più giovani sopportino meglio il virus è ormai accertato ovunque.

Tra qualche anno potrebbe verificarsi un’ecatombe a scoppio ritardato. Alcuni medici africani suonano l’allarme anche se per ora gli stili di vita non sono cambiati di molto.

Ciò è vero soprattutto negli slum e nelle bidonville africane, dove è impossibile mettersi in quarantena, auto-isolarsi o mantenere il distanziamento sociale necessario, complice un alto tasso di promiscuità.

C’è poi l’atteggiamento generale della pubblica opinione del continente, non così convinta che il Covid 19 riguardi anche loro. Nelle grandi città girano voci incontrollabili, il prodotto di un sostrato culturale duro a morire. Una delle chiacchiere più frequenti (come fu per Ebola) è che il virus sia una creazione importata dai “bianchi” o dai cinesi (nella quasi totalità delle lingue etniche locali bianco o cinese si dice allo stesso modo). In alcuni casi, come in Etiopia, ci sono state le prime cacce alle streghe nei confronti di europei. In nord Africa ha avuto molto successo la fake news che il coronavirus fosse stato creato dai francesi in laboratorio. Unitamente a tali voci, si aggiungono quelle che sostengono che i sistemi di protezione o le mascherine in arrivo dalla Cina siano infetti o che lo siano i liquidi disinfettanti importati. Durante lo scatenarsi di ebola numerosi furono i casi di linciaggio di medici ed infermieri venuti a curare e invece visti come untori.

D’altro lato l’emergenza si trasforma subito in una possibile opportunità di mercato para-religioso per le sette, numerosissime nel continente subsahariano.

La gente ha paura e accetta qualunque tipo di messaggio “divino” pur di essere curata o protetta. Cerimonie di improvvisati guaritori (tradizionali, afro-cristiani, afro-islamici o evangelicali) servono più a propagare il virus che a controllarlo, soprattutto tra le donne. In altri casi si spargono fake news come quella che furoreggia in Africa occidentale francofona e cioè che la clorochina (un noto antimalarico) serve a curare il virus. Così le farmacie sono prese d’assalto con nessun beneficio. Niente di nuovo sotto il sole: recentemente anche in Europa voci di questo tipo hanno riguardato la vitamina C o altri prodotti da banco.

Come in Europa, le autorità africane hanno preso provvedimenti lentamente e in ritardo rispetto agli stessi allarmi lanciati dall’Oms (l’Organizzazione mondiale della Sanità). Attualmente le frontiere sono chiuse mentre non sono state vietati gli assembramenti, ma solo limitati. Nella maggioranza dei casi si fa divieto di riunioni di più di 30 o 50 persone mentre molto poco è fatto per potenziare il sistema sanitario, che sarebbe immediatamente sommerso vista la sua pochezza. Mancano come ovunque, mascherine, guanti, camici e gel disinfettante ma è da scommettere che la Cina farà uno sforzo importante a tale riguardo. Non esiste per ora nessun lockdown all’europea che in Africa è comunque possibile: ne sono stati fatti molti per altri motivi, soprattutto politici (villes mortes, o città morte, cioè la paralisi delle attività nei centri urbani).

Il problema della distanza da mantenere per evitare contagi è più complicato, così come quello delle convivenze numerose. Il cambiamento di stili di vita e comportamenti necessita di disciplina sociale.

Se l’Africa dovrà adottare misure come quelle in uso ora in Europa si porrà quasi subito il problema degli approvvigionamenti alimentari in città e quello dei mercati. Una riforma strutturale di questi ultimi per diminuire i rischi sarebbe da mettere in atto quanto prima, anche se in molti paesi africani esiste un’abitudine al razionamento, soprattutto laddove vi sono stati conflitti o crisi. Per ora le scuole sono state chiuse quasi ovunque e ciò che mette a terra un sistema educativo già molto indebolito dall’aggiustamento strutturale degli anni precedenti: avremo nuove generazioni perdute perché in Africa è molto difficile recuperare domani ciò che si è perso oggi in termini di istruzione (come accade sempre durante le guerre).

Per i più poveri sarà il vero dramma, senza differenze con l’Europa anche se in misura più letale. Carceri, bambini e ragazzi di strada, anziani soli, rimarranno senza cibo né cure, con un prevedibile alto tasso di mortalità dovuto non solo alla malattia. Sono le vittime collaterali di un sistema che si blocca del tutto.

Quasi tutte le ong occidentali presenti sul continente si stanno riconvertendo per reagire alla pandemia. Laddove sono attivi programmi sanitari (come i programmi Dream anti Aids di Sant’Egidio o gli ospedali di Emergency) in cui i responsabili sono locali formati in precedenza, già stanno funzionando come centri di prevenzione e in alcuni casi anche di cura. Tuttavia laddove i programmi sono invece tradizionalmente tenuti da medici e personale italiani (come nel caso di Cuamm) ciò diventa più difficile per l’impossibilità attuale di viaggiare.

Per evitare tali gravi conseguenze e scommettendo sul fatto che una popolazione più giovane potrebbe reggere meglio il primo impatto della pandemia, gli stati africani dovrebbero essere molto severi da subito, mettendo in opera misure draconiane anche quando la percezione del rischio non è ancora alta. Si potrebbe così guadagnare quel tempo necessario fino al momento del vaccino (un anno?), per poi organizzare delle campagne di vaccinazione a tappeto. Anzi: sarebbe bene che già da ora le autorità africane premano presso Onu e Oms perché l’Africa sia tra i primi a poterne usufruire e non resti ultima come al solito.

Foto: Ninno JackJr on Unsplash