Se è vero che la strada per vincere il cuore di chi ci sta accanto passa per il suo stomaco, la chef Ritu Dalmia si è imbarcata in un’impresa decisamente più complessa. In India è una star-chef, ambasciatrice dell’eccellenza della gastronomia (e dei prodotti tipici) italiani, quelli veri. In Italia, ha portato una cucina indiana di altissimo livello, aprendo il ristorante Cittamani che, a Milano, è diventato un punto di riferimento nel suo genere. Non solo: Ritu Dalmia è la donna che ha lottato apertamente per la depenalizzazione del reato di omosessualità in India, e che in Italia si batte a viso aperto per una cultura inclusiva, aperta, coinvolgente.

Con un background del genere, conviene partire dalla basi. Quindi: come ha iniziato a cucinare e come ne ha fatto una professione?

«Ho iniziato a cucinare da bambina, per la mia famiglia e gli amici, ma è stato a vent’anni, grazie al mio primo amore e all’Italia, che ho capito di voler intraprendere questa strada. Non è stato facile, all’inizio, perché ho provato a portare la cucina italiana in India già nel ’94 ma non era ancora il momento opportuno perché tutti la apprezzassero. Nel 2000 però ho trovato la formula giusta con Diva Italian a Delhi, il primo ristorante di una lunga serie».

Appunto, come si è avvicinata alla cultura e alla cucina italiana?

Sono figlia di commercianti di marmo e ho sempre frequentato l’Italia perché la mia famiglia aveva degli affari qui. Ho imparato a conoscere e apprezzare la cucina italiana e le sue differenze – o direi piuttosto ricchezze – regionali, studiandole bene per poterle fare mie.

Tanto da aprire un ristorante nella piazza gastronomica più ambita d’Italia, Milano?

«Prima di Expo non ritenevo l’Italia e Milano in grado di fare la differenza per un investimento di tipo gastronomico, ma poi ho visto la città cambiare, evolversi, aprirsi e ho deciso di “buttarmi”. Ho sentito (per me le sensazioni sono fondamentali) che potevo offrire qualcosa alla città e che la città poteva a sua volta darmi molto».

Quali sono state le maggiori difficoltà?

«La nostra sfida più grande è stata trovare la giusta location. Credo che, se mi guardo indietro, sia stato il passaggio che ha richiesto più tempo. Abbiamo visionato più di 40 locali prima di scegliere quello attuale. La seconda sfida è stata quella di cambiare la mia mentalità e la mia attitudine».

Ritu Dalmia (foto Modestino Tozzi)

Ad esempio?

«Anche se Milano è ormai una città dallo spirito internazionale, i ristoranti funzionano ancora in modo differente, seguendo le abitudini locali: per esempio, il Natale in India è per la mia attività un periodo molto pieno, mentre qui lo è meno, con discontinuità, perché la gente preferisce cenare in famiglia. Ma tutto sommato devo dire che l’apertura di Cittamani è stata davvero perfetta e quindi, grazie a questa prima esperienza molto positiva, ho deciso di lanciarmi nella nuova avventura di Spica un anno dopo».

Ci parla di questa nuova avventura?

«Stiamo lavorando alacremente per poter aprire, nel mese di giugno, il mio nuovo locale. Si chiama Spica e avrà una formula internazionale, anzi direi globale. Ho il piacere di condividere questa avventura con Viviana Varese, una grande amica oltre che una grande chef, a cui affiderò la formazione del personale di cucina e un importante contributo al menu. Vogliamo dare vita a un posto conviviale, divertente e internazionale sotto ogni punto di vista».

La parola chiave è internazionale, che in chiave business ci rimanda a inclusione, coinvolgimento. Crede che l’Italia sia un Paese aperto, da questo punto di vista?

«Questa è una domanda molto difficile. Fino a sette o otto anni fa, trovare cibo internazionale di buona qualità era praticamente impossibile, perché l’Italia ha una così ricca e forte cultura gastronomica che l’apertura al cibo straniero era davvero limitata. In un certo senso, è un atteggiamento molto comune alle varie nazioni che possiedono una cultura gastronomica forte, come India, Cina o Francia. I Paesi dove il cibo “straniero” si è diffuso molto sono quelli – come il Regno Unito, l’Australia o gli Stati Uniti – nei quali non ci sono mai state una storia e un’eredità gastronomica forte».

Milano si apre al confronto e al racconto gastronomico del mondo. Il resto della nazione?

«Troviamo ancora questa cultura in più parti d’Italia, tuttavia Milano in qualche modo ha rivoluzionato le abitudini alimentari italiane e oggi sono molto orgogliosa di poter dire che in città i ristoranti milanesi dedicati al cibo sia italiano sia internazionale sono quasi alla pari con quelli di Londra o New York… Certo, ora quello che dobbiamo chiederci è se questa tendenza si diffonderà ad altre città italiane o se rimarrà circoscritta a Milano».

La mancata accoglienza (gastronomica!) è un bel paradigma. Quanto e come crede che sia importante comprendere la cultura gastronomica di un altro Paese, per comprendere quel Paese?

Come disse una volta il famoso scrittore Brillat-Savarin “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”: non c’è un modo migliore di capire una cultura o un Paese che assaggiare il suo cibo e conoscere la sua gente.

Vale anche per lei?

«Ho viaggiato molto in Italia e mangiato in lungo e in largo attraverso il Paese e oggi, anche se potrei sembrare arrogante, penso di poter dire con certezza che capisco l’Italia meglio di molti italiani».

L’Italia sta vivendo un momento di chiusura, nei confronti della migrazione. Ha mai vissuto degli episodi di razzismo in Italia?

«Ho vissuto in UK per molti anni, ho lavorato ovunque in Europa e devo ammettere che sono stata abbastanza sfortunata da scontrarmi con il razzismo in Svizzera, Austria, Germania e perfino nel Regno Unito dove gli indiani rappresentano una larga parte della popolazione, tuttavia sono davvero felice di poter dire che in Italia non mi è mai capitato, nemmeno nelle piccole cittadine o nei paesi. Nel nostro team di cucina abbiamo molte persone che arrivano dall’India e nessuno di loro ha mai dovuto affrontare alcun problema di questo tipo».